22 aprile 2012

La scommessa

Immagino che ora si sprecheranno le analisi sulla crisi del Barcellona. L'appannamento è evidente e nei fatti e non è detto che martedì sera non ci scappi una clamorosa esclusione dalla finale di CL, come già nel 2010 se - come probabile - Di Matteo erigerà un'altra barricata (El Mundo deportivo ha scritto che a Stamford Bridge RDM «ha messo un autobus di tre piani davanti al portiere» e che il gioco della sua squadra «ricorda quello rancido dell’Inter di Mourinho»). A me pare che il dato sia fisiologico: ogni grande squadra che apre un ciclo vive momenti di alti e bassi. Come ho già scritto in tempi non sospetti, l'hapax è stato raggiunto nel 2011, quando la squadra di Guardiola era imbattibile, sia nei confronti roventi con il Real sia in Europa.

15 dicembre 2011, Nissan Stadium, Yokohama
David Villa lascia il campo dopo essersi fratturato la tibia
Perché a distanza di un anno non è più così? Cause molteplici, non una sola: tensione che cala, appagamento, presunzione, etc. Molto hanno pesato gli infortuni e la perdurante condizione non smagliante di uomini chiave come Xavi, Iniesta, Piqué e, in particolare, l'assenza di Villa o comunque di un attaccante vero (nemmeno Sanchez lo è, nonostante la sua entrata in campo negli ultimi venti minuti dell'altra sera abbia spostato il peso della squadra in avanti). Per necessità e forse per desiderio di sperimentazione estrema il Pep quest'anno ha finito per estendere la presenza dei centrocampisti in tutti i ruoli (come ha osservato giustamente Luigi Garlando sulla Gazzetta del 20 aprile): lo scorso anno la difesa faceva perno su Puyol e Piqué (che garantivano anche la possibilità di giocarsi di testa la carta dei corner), quest'anno no, perché il secondo si è involuto; in avanti si è visto come Fabregas, Iniesta e lo stesso Alexis non siano dei bomber. Tatticamente, la differenza più evidente è che la squadra non riesce più a fare la transizione immediata dello scorso anno: persa la palla partiva immediatamente la caccia a recuperarla (pressing e possesso erano un continuum meraviglioso, mai visto fino ad allora), adesso invece la squadra ripiega e attende, e subisce.

E' il Real che appare avviato a vincere non solo la Liga ma anche la CL. La squadra è grosso modo quella dello scorso anno, però con un training di 12 mesi in più. Non è che negli scontri del 2011 abbia giocato tanto diversamente dall'altra sera: la differenza sta nel chiasmo col Barça. I catalani sono in calo, i madrileni in ascesa. Questo è sufficiente a spostare l'equilibrio. José Mourinho è un personaggio non simpatico (eufemismo), ma è senza dubbio uno dei migliori allenatori in circolazione come mostra il fatto che vinca ovunque vada. Eppure c'è un eppure. Ha scritto mastro Arrigo nella prefazione al bel libro di Sandro Modeo L'alieno Mourinho [in parte leggibile qui] che Mou «usa moduli e sistemi diversi [...], non possiede uno stile di gioco unico e neppure un'identità definita [ma] si adatta all'avversario come un guanto a una mano [...], dimostrando duttilità, conoscenze e fantasia». Il problema di Mourinho è dunque la storia. Rischia infatti di entrare solo in quella statistica dei palmarès e non in quella della memoria. Le sue squadre sono camaleontiche perché perseguono lo scopo egocentrico del loro direttore d'orchestra: vincere per sé e non per lasciare una traccia originale nella storia del calcio.

José Mourinho
18 marzo 2012
Estadio Santiago Bernabeu, Madrid
Noi ricordiamo ancora, per esempio, il Balckburn Rovers degli anni ottanta dell'Ottocento perché vinse tutto il vincibile adottando sistematicamente e perfezionando il nuovo stile di gioco del passing game (che era stato "inventato" in Scozia nel decennio precedente), o l'Aranycsapat degli anni cinquanta del Novecento che tra le altre cose demolì anche il superiority complex albionico in una delle dieci partite di sempre (Wembley Stadium, London, 25 novembre 1953: visibile qui), per non dire dell'Inter di Herrera che portò il gioco all'italiana a vette impensabili, etc., etc. Al contrario, i nomi di molti allenatori vincenti del secolo e mezzo della storia del calcio giacciono solo nei repertori statistici. Il destino di Mourinho rischia di essere quello di riposare in futuro negli strumenti di reference e di essere ricordato semmai per i suoi comportamenti strafottenti e vittimistici [un bel catalogo è qui].

Dunque la sua sfida personale al mondo non può più eludere una scommessa: lasciare un segno originale nelle idee di calcio. Potrà vincere ovunque ma non ricorderemo quale sia stata la sua identità di gioco. La memoria è selettiva e non la fanno solo i vincitori.