4 luglio 2012

Pensieri e parole

Flash
9 giugno 2012, Arena Lviv, Lviv
Joao "moto perpetuo" Moutinho in pressing
su Bastian Schweinsteiger
Se ripenso al bel torneo appena trascorso ci sono alcune immagini che mi tornano per prime alla mente. Innanzitutto l'assist rasoterra di Xavi nel secondo gol della Roja in finale, un segmento di lancinante bellezza della linea retta della sua classe infinita: Alba si è voltato una volta verso il Catedratico nella sua volata di 50 metri, solo per essere sicuro del triangolo, e poi si è infilato alla cieca tra Barzagli e Bonucci sicuro di vedersi recapitare la palla sui piedi dalla spalle, puntuale come ad un appuntamento. E poi il bolide con cui Mario ha lasciato di sale non solo Neuer ma i suoi detrattori: la delicatezza con cui ha toccato, una sola volta, la palla lanciata da Montolivo prendendo la rincorsa, e la forza, il marchio d’autore, con cui ha colpito il pallone. Il cucchiaio di Pirlo, naturalmente: di cui ho soprattutto apprezzato il valore psicologico (perché il rigore di Panenka rimane inimitabile, se non altro per la rincorsa veloce e lunghissima che contrappose alla lentezza balistica). E, ancora, la zampata con cui Samaras ha insaccato (meglio, ha cacciato in rete), con determinazione non solo agonistica ma politica, la palla del pareggio provvisorio in una gara asimmetrica segnata in partenza e nondimeno combattuta fino ai limiti delle capacità. La doppietta aerea con cui Shevchenko ha fatto sognare, nel suo stadio, un intero paese. Il pressing inesausto di Joao Moutinho, un moto perpetuo tattico, un martello pneumatico agonistico. Il gol bellissimo di Pavlyuchenko contro i cechi. L’orrenda partita tra Spagna e Francia, probabilmente la più brutta di tutto il torneo. L’angoscia crescente di fonte allo sforzo inane, e nel secondo tempo supplementare di disperata dedizione, degli Azzurri contro l’Inghilterra. Le parate di Casillas in tutto il torneo, senza una sbavatura: una quadreria d’autore.

La Roja
1 luglio 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
I titolari della Spagna tricampione d'Europa
Ne abbiamo già cominciato a parlare e immagino che continueremo a farlo. Constato solo come abbiamo avuto la fortuna in questi anni di poter ammirare due grandissime squadre: il Barcellona del Pep e la nazionale spagnola pluri campeón. E' forse un po' ozioso chiedersi se sia o meno la squadra più bella e più forte della storia del calcio: è certamente tra le più forti perché una serie del genere è avvicinabile solo a quelle, agli albori della modernità, dell’Uruguay inventore del gioco corto (Olimpiadi 1924-1928 e Mondiale 1930), o dell’Italia del “metodo” di Vittorio Pozzo (Mondiali 1934-1938 e Olimpiadi 1936, ma anche le Coppe Internazionali del 1930 e 1935 contro il Wunderteam austriaco); quanto a bellezza la Roja 2008-2012 sta certamente nello stesso pantheon con la Aranycsapat magiara 1950-1954, il Brasile 1970, l’Olanda 1974-1978, la Germania 1972-1974, e forse anche il Brasile 1982. Così come è un po' tartufesco, a mio avviso, ricondurre il tutto alla eccezionale generazione di campioni fiorita in questi anni. A fare una grande squadra sono certamente i giocatori di qualità, ma non solo: vi concorrono anche altre componenti a cominciare dagli allenatori, dalla tradizione e dalla cultura calcistica del paese; e naturalmente la fortuna (nello specifico, gli errori dal dischetto di De Rossi e Di Natale nel 2008, la broccaggine di Robben nel 2010, la traversa di Alves nel 2012) premiata da Eupalla.

L’esondazione del centrocampo
1 luglio 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
La fase è difensiva, ma a opporsi ai difensori e agli attaccanti
italiani sono ben sei centrocampisti spagnoli
A fare una grande squadra concorre ovviamente anche il gioco. Non il modulo, ma la capacità di fare gioco. Se c’è una novità (per quanto relativa) emersa da Euro 2012 è certamente la conferma dell’investimento sui centrocampisti creativi, una strada già avviata dal Barça del Pep, ma che è ora conclamata e spinta fino alla definitiva rinuncia tattica al centravanti: quest'ultima, davvero, una rottura epistemologica che la storia ascriverà al pacato laboratorio di Vicente Del Bosque (sul merito del quale ho in animo di tornare con un intervento dedicato). Nel 4-6-0 metodologico della Roja si annidano sia il 4-3-3 effettivo, sia il 4-2-4 (di magiara e brasiliana memoria) di molte fasi in cui Xavi tendeva ad affiancare sulla stessa linea Fabregas. Resta il dato di fondo di una strategica rinuncia ai giocatori di sola corsa e/o rottura: ai Gattuso e ai Pepe, per intendersi, o alla fauna immensa dei giocatori di colore (e non solo) tutti uguali e di modesta tecnica che si è disseminata nei campi d’Europa senza apportare alcunché di aggiuntivo (rari essendo i Rijkaard, i Vieira o i Touré). E, al contrario, l’investimento in giocatori di qualità, in centrocampisti di tasso tecnico accertato, anche in ruoli tradizionalmente affidati a profili più ruvidi come quelli difensivi: la Roja che abbiamo ammirato ha giocato di fatto con un portiere, due difensori e otto centrocampisti. E non è una monade, ma comincia a fare proseliti, e annuncia probabilmente il calcio di élite che verrà: per alcuni un “tiki-takanaccio” noioso, per altri – quorum ego – un “proyecto de arte modernista” (uno 0-10-0 futurista).

I “piedi buoni” di Cesare
24 giugno 2012, Olimpiyskyi, Kyiv
Alessandro Diamanti, uno dei pupilli di Cesare Prandelli,
esulta dopo aver segnato il rigore decisivo contro l'Inghilterra
Chi si è incamminato sulla medesima strada del gioco propositivo affidato a centrocampisti di qualità è il nostro Prandelli. Nella conferenza stampa di bilancio conclusivo, Cesare ha esplicitato la sua prospettiva morale e politica quando ha affermato – e come dargli torto? – che siamo “un paese vecchio, con idee vecchie e una mentalità vecchia, e non abbiamo voglia di cambiare”. Lui invece ha mostrato un percorso nuovo possibile, di rinnovamento culturale, puntando al risultato attraverso il gioco, come già hanno fatto altre grandi squadre e tradizioni calcistiche, da ultima la Roja. Nel gioco dei paragoni in pochi hanno ricordato il precedente di Fulvio Bernardini, che avviò da CT la ricostruzione dopo il Mondiale del 1974 (in cui, peraltro, perdemmo dalla Polonia e non dalla Slovacchia, pareggiammo con l’Argentina e non col Paraguay, e vincemmo con Haiti e non pareggiammo contro la Nuova Zelanda …) puntando a costruire una nazionale “dai piedi buoni”: così ha fatto Prandelli dopo il disastro combinato in Sud Africa da Lippi e dai suoi reduci. Tra i meriti di Cesare, oltre a quelli di cui abbiamo già scritto, è anche quello di saper essere, a un tempo, un selezionatore sagace (non ha lasciato a casa nessuno che abbiamo rimpianto) ma anche un allenatore capace di fare crescere la qualità dei suoi giocatori (dai Morfeo ai Diamanti): e su questo la Lega, che gli nega quattro giorni di stage, dovrebbe riflettere per il plusvalore di capitale che il lavoro di Prandelli ha apportato e potrà apportare in futuro (come sa bene Zamparini che tratta in queste ore su altre basi economiche la cessione di Balzaretti agli sceicchi parigini). Se vogliamo trovare un limite a Cesare è semmai la sua assenza di palmarès: non ha vinto nulla finora; il che non preclude che possa farlo in futuro, ma il dubbio è legittimo. Vi è come un’ombra di incompiutezza che grava sulla sua indubbia grandezza di maestro di calcio. Non penso tanto agli epiloghi coi Rangers o con Ovrebo, ma più semplicemente alle incertezze palesate in alcune sostituzioni enigmatiche di questo torneo e al mancato “coraggio” di mettere in campo per la finale una squadra fresca. La sensazione, che mi auguro evapori nella smentita, è che nell’ultimo chilometro il nostro Cesare perda lucidità.

La Benny Hill’s Club Band
Michel Serrault tra i suoi boys
All’Europeo 2012 erano presenti tutte le vincitrici dei tornei precedenti. E c’era pure l’Inghilterra. Se non esistesse, la nazionale britannica andrebbe infatti inventata: è uno spasso gaudioso assistere alle sue mirabolanti débâcles. Il caso è ormai clinico, e oggetto di una vastissima letteratura critica, cui cerchiamo di star dietro nella nostra Biblioteca. Anche in Ucraina (la Polonia non ha fatto in tempo a visitarla) il Magical Mistery Tour 2012 si è arenato mestamente come sempre. In un rigurgito d’orgoglio – che trasuda in analisi come quella di Keir Radnedge, prima firma mooolto british di “World soccer” [June 2012], che non manca di accusare Fabio Capello di non possedere un CV con esperienza di squadre nazionali (il Bisiaco, infatti, non solo ha espugnato Wembley nel 1973 in maglia azzurra, ma ha anche vinto tutto, purtroppo esclusivamente con le squadre di club) – la FA del nuovo corso ha ritenuto che fosse disdicevole che una nazionale del blasone di quella albionica continuasse a prezzolare managers foresti come Eriksson e Capello. Da qui la scelta di Benny Hill, il cui CV è apparso più adeguato avendo allenato nazionali di livello come Svizzera, Finlandia ed Emirati Arabi Uniti. Noi nerazzurri lo ricordiamo bene quando nelle conferenze stampa doppiava le comiche di Stanlio ed Ollio e anche perché con lungimiranza consigliò al líder Máximo la vendita di Roberto Carlos in favore di Felice Centofanti. Ad alcuni soci della Canottieri Tevere annidati in RAI piace molto perché curiosamente ricorda loro la controfigura di Ray Hudson (a me pare in realtà una vecchia spassosa come Michel Serrault ne La cage aux follestraduction littéraire: “La gabbia delle checche”). Fatto sta, con un 4-4-2 ben organizzato e pulito, Roy Hodgson ha messo su un ammirevole catenaccio con cui rischiava di fare fuori pure noi maestri nell’arte: il che, oltre che disdicevole, sarebbe stato paradossale. Mi auguro piuttosto che RH riesca a qualificare i Leoni d’Inghilterra per i mondiali del 2014: avremmo modo così di farci altre quattro risate anche allora. Non vorrei sembrare come al solito qualunquista, ma la questione è molto più semplice di come appaia: il livello del calcio nazionale inglese è, da sempre, sopravvalutato; la sua reale consistenza è di seconda fascia, a livello della Svizzera quando va male, della brillante Olanda quando va bene. Con un’ardua metafora, è come se allo snobbistico club delle democrazie internazionali noi rivendicassimo un posto fisso e d’onore perché abbiamo sperimentato ottocento anni fa la “democrazia” nelle città comunali, quando in realtà la nostra storia è fatta soprattutto di principi e di signori. Gli inglesi hanno “re-inventato” (come sottolineava Gioanbrerafucarlo) il calcio, ma non lo sanno giocare bene. Tout simplement.

Azor