22 settembre 2012

Problemi ed errori della Beneamata - Il peccato originale

2 maggio 2010, Stadio Olimpico, Roma
L'immediata agiografia dei tifosi laziali
è spesso rimossa dai tifosi interisti 
Proseguo la riflessione sulle vicende recenti della Beneamata. Come ho già scritto nel messaggio precedente sul tema [vedi], il peccato originale è stata - a mio avviso - la sopravvalutazione del Triplete. Tra i tifosi si tende infatti a dimenticare volentieri la dose di fortuna che accompagnò la parabola mourinhana anche in quell'anno. Pochi, tra loro, conoscono l'opinione che, del loro illustre concittadino, hanno i suoi amici di Setubal: "Noi diciamo che è nato con il culo nel burro" [fonte: S. Modeo, L'alieno Mourinho, 2010, p. 169]. E altrettanto pochi amano ricordare che: all'85° minuto del ritorno con la Dynamo Kiev il 4 novembre 2009, la squadra era virtualmente eliminata dal girone di Champions; che da quel momento la Roma di Ranieri le recuperò 14 punti e la superò in vetta l'11 aprile 2010 alla 33a di campionato; che all'andata a San Siro contro il Barcellona il 20 aprile la direzione arbitrale del portoghese Olegário Faustino Manuel Benquerenca Bartolo fu perlomeno svagata (per non dire assai casalinga), come già lo erano state quelle degli ottavi di Champions contro il Chelsea; che ci volle una doppietta del doriano Pazzini all'Olimpico la sera del 25 aprile per tornare in testa alla classifica; che la Lazio in pratica non giocò la partita della 36a giornata; e che a 35 minuti dal termine del campionato lo scudetto era cucito sul petto della Roma. Si preferisce - come è ovvio - esaltare l'espugnazione di Stamford Bridge, l'1-9-0 del Camp Nou, le prodezze leonardesche di Milito tra Roma, Siena e Madrid nel volgere di due settimane. Ma questo esercizio selettivo della memoria si rende complice del processo di sopravalutazione delle vittorie, acchiappate sul filo, del maggio 2010, e non riesce a spiegare - se non con la delusione stizzita e l'imputazione errata delle responsabilità - il declino repentino e strutturale della squadra nel volgere di una mezza stagione.

Bene inteso, non intendo sminuire il valore assoluto del Triplete, del quale gaudo come tutti color che han nel cuore i colori del cielo e della notte. Semplicemente, da storico e non da tifoso, cerco di comprendere le ragioni di quel che è accaduto dopo. E come sempre, negli svolgimenti umani e sociali - e lo mundo pedatorio non fa eccezione - il dopo si spiega anche alla luce del prima. Il Triplete costituì infatti una gloriosa eccezione, un unicum, rispetto a un declino, atletico e tattico, che quella squadra aveva imboccato sin dall'autunno del 2009. Il merito dello scarto e dell'impennata di Maggio va ai giocatori, in primo luogo, e al tecnico, che, se possiede una qualità, è certamente quella di saper motivare i suoi prodi e di saper estrarne le energie più riposte. L'esito fu fausto ma mascherò le fragilità dell'impresa. Tutto l'ambiente - da Moratti alla società, alla squadra, alla stampa beota e alla tifoseria - volle confondere uno stato di eccezione con un destino di grandezza. Basti ricordare come, alzando la coppa, Milito batté cassa in Mondovisione e come, dopo nemmeno un'ora, Mourinho salì sulla limousine del Real, conscio che il futuro di quella squadra (e quindi anche suo) era ormai alla spalle.

L'unico fuoriclasse nerazzurro dell'anno del Triplete:
Samuel Eto'o Fils
Andrebbe fatto anche un discorso di realismo. Se scorriamo il tabellino, dei titolari dell'impresa di Madrid solo uno può essere ascritto al rango dei fuoriclasse: Samuel Eto'o. Zanetti e Maicon sono stati certamente dei campioni. Gli altri, da Júlio César a Samuel, da Cambiasso a Sneijder o a Milito, sono solo dei grandi giocatori, come dimostra anche il loro esile palmarès nelle competizioni internazionali. Intendo dire: non sono certo al livello dei Casillas, dei Buffon, dei Giggs, degli Iniesta o dei Pirlo. Ma l'ubriacatura collettiva del momento li fece vedere più grandi di quel che erano e valevano. Soprattutto, fece credere che avrebbero potuto confermarsi a quei livelli. Pochissimi si resero conto che quei successi erano un'eccezione. Il primo a non valutare in modo adeguato la situazione fu Moratti che, eguagliata l'impresa del padre, subì un'evidente calo di tensione, aggravato dallo stato di vedovanza inconsolabile in cui lo precipitò l'addio di Mourinho. La sazietà contingente del trionfo si tradusse nella parola d'ordine che la "squadra che vince non si tocca". Ed è qui - a mio avviso - che si annida il vulnus del declino successivo, e attuale, della squadra.

Ho già argomentato degli errori continuativamente compiuti da allora sul mercato. E anche qui, bene inteso, non perché Moratti e Branca siano degli incompetenti: basterebbe ricordare la loro capacità di costruire la squadra vincente insieme a Mancini (e a Oriali) e i colpi azzeccati nell'estate del 2009. Più semplicemente, sopravvalutarono l'organico e sottovalutarono l'urgenza, innanzitutto anagrafica, di rinnovarlo. Al contrario di quanto hanno fatto e fanno tutte le squadre di vertice (da ultima, nel suo piccolo, l'invitta Juventus, che ha testé rafforzato la rosa con titolari come Asamoah, Giovinco e Isla). Qui sto parlando di conduzione tecnica, e il Direttore dell'Area Tecnica è stato in questi anni, ed è ancora, Marco Branca. Cui si dovette la capacità di puntare a un successore di Mourinho di alta qualità come Rafa Benítez. Ma a quella scelta (che gli consentì, peraltro, di fare fuori in società il nemico personale, Lele Oriali) Branca non fu in grado di far seguire un rinnovamento qualitativo dei ruoli. Il pasticcio, soprattutto, fu quello di chiamare in cucina uno chef di nome e poi di fornirgli delle materie prime di scarsa qualità.

Azor