18 dicembre 2012

Vent'anni dopo

Sono passati vent'anni dalla morte di Gianni Brera. Aveva settantatré anni compiuti, quando schiantò su una strada secondaria della bassa, reduce da una cena con amici in trattoria di paese. Dopo un eterno girogavare fra redazioni, si era stabilizzato a La Repubblica. Firmò il suo ultimo (o penultimo) articolo per il giornale di lunedì 8 dicembre, a commento della dodicesima di andata del campionato di Serie A, stagione 1992-93. Le vittorie valevano ancora due punti; il Milan ("Sua Prepotenza") aveva impattato al Meazza con l'Udinese; sul campo allagato del Conero, il "flebile centrocampo dell'Inter" aveva fatto "lamentevole naufragio", e i bauscia tornavano a casa con zero punti e tre reti al passivo. "L'alma Juventus" era scesa a Firenze, e "riferiscono  le cronache sia stata sconfitta due volte: in campo e sugli spalti, dove i suoi irriconoscibili tifosi hanno trasmodato in nefandezze imperdonabili". Il Toro veniva fermato in casa dal Foggia: "induco da certe critiche che Mondonico del Torino abbia espresso il proprio disagio dirigendo a capocchia una squadra già di per sé mal composta ... il Foggia ha conquistato il suo primo punto esterno inducendo qualche critico a proclamare la propria ammirazione per Zeman, taumaturgo della zona e del podismo". Il terzo posto del Cagliari destava "grato stupore", pur riuscendo solo "fortunato eversore d'un Napoli pieno di rogne sinistre. Mazzone ha incantato per l' autoironia con cui ha dato conto della propria incredulità felice". E così via; a concludere, l'evocazione della sua (e nostra) divinità: "Avrei molto altro da dire su questo campionato di folli. Meglio chiudere e ingraziarsi Eupalla con sacrifici degni della sua natura divina. A terra siamo noi con le nostre vergogne".

Non fece in tempo a vedere il secondo e il terzo scudetto del Gran Bisiaco; a raccontare le stranezze del mundial americano. Non vide la maturità di Baggio, il triste declino di Diego, l'esplosione di Totti e Ronaldo, l'arrivo dei petrodollari russi, di Platini all'Uefa, l'epifania di Messi e molte altre cose, interessanti o meno. E viene sempre da chiedersi cos'avrebbe pensato dell'Inter di Mourinho o del Barça di Guardiola. In effetti è mancata, nell'ultimo ventennio, la voce-guida, il parametro essenziale: un po' come se le più grandi e importanti partite ci siano state restituite da una cronaca muta - nel migliore dei casi; in realtà, ha finito per predominare l'autismo urlato della critica tifosa e senza più finzioni militante (soprattutto televisiva), e le ultime buone firme di fronte a tanta inutile chiacchiera si sono volontariamente delocalizzate.

Il giorno dopo la sua morte, i quotidiani erano lenzuola di coccodrilli. Di interviste, ad amici e nemici o pseudo-nemici (Rivera soprattutto). Fu un coro unanime - apprezzamenti, nostalgia, ricordi -, e soprattutto tanto esercizio di bella scrittura (in calce ne riporto alcuni frammenti estrapolati). Dal ritratto collettivo che ne sortì - per certi aspetti del tutto scontato -, un tratto univoco e probabilmente veritiero spiccava, e riguardava la generosità esuberante dell'uomo. A noi rimane la generosità delle sue pagine sul football: in esse, certamente la sua pratica si poneva come antitetica alle teorie del gioco che sosteneva: a fronte del calcio pragmatico, utilitaristico, contratto che predicava, la sua prosa era infatti pura trasgressione del canone italico, era funambolica e fantasiosa, costantemente alla ricerca di innovazione; era avvolgente, a tutto campo.

Ci restano i suoi libri [raccolti nella nostra Sala Brera], e nessuno di essi pare davvero invecchiato: la monumentale Storia critica del calcio italiano, la biografia di Herrera, i pamphlet che qualche piccolo editore gli commissionava prima di un mondiale. Rispetto ai giovani scrittori britannici dei nostri giorni, la sua lettura delle relazioni tra calcio e fenomeni sociali era più 'sgamata', quasi che - ritenendole scontate - non valesse la pena di sottrarre spazio alla narrazione principale. Preferiva una visuale etno-antropologica a quella politica o sociologica, il che lo fa apparire ormai - almeno in questo - un po' ingenuo, un po' retrò. Ma l'immaginifica rappresentazione del mondo che più da vicino ha frequentato e conosciuto rimane insuperata e inimitabile, e non solo per la dimensione letteraria e per le innovazioni 'linguistiche'. E insuperata, nella sua sinteticità, resta la definizione che di lui offrì Umberto Eco: "Gianni Brera è Gadda spiegato al popolo".

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Eravamo di quegli italiani che devono imparare l' italiano come una lingua non direi straniera, ma più alta e più grande, non solo nostra e dei nostri "pais", ma di tutti, di tutte le province e città. E questa fatica fu certamente più importante di tutte le nostre guerre e giri per il mondo e per le gazzette. Giovanni che aveva ambizioni letterarie più forti di tutto, del mestiere, del successo, del denaro direi delle stesse amicizie, ha amato la lingua più di ogni altra cosa al mondo e, siccome era uno che non solo la padroneggiava ma la inventava, soffriva pene io so amarissime e taglienti sentendo attorno a sé per molti anni la sufficienza di letteratucoli che non avevano un' oncia del suo talento prodigioso in quella musica che è il linguaggio (Giorgio Bocca)

E' la fine della fantasia, dell' estro. Ora resta solo il calcio normalizzato (Oreste del Buono)

Aveva visto tutto, dello sport, e ancora in tribuna puliva gli occhiali per non perdere niente, tra volute di fumo da pipa sempre più grandi e sorsate di whisky sempre più piccole (Gian Paolo Ormezzano)

Ci capivamo perché Brera era capace - quando voleva, quando decideva di farlo - di abbandonare questa sua 'mania' intepretativa, cioè l'attaccamento alla sua tesi, e di diventare obbiettivo, di riconoscere i suoi errori. E la tensione si scioglieva, magari a tavola, davanti a una buona bottiglia di Barbaresco che lui amava moltissimo (Gianni Rivera)