29 maggio 2012

Terremoti

Sono giorni di terremoti, purtroppo. Accanto a quello tragico che sta drammaticamente piegando l'Emilia e che spezza la vita delle persone, la scossa è arrivata anche al vertice del calcio italico. Un evento che non giunge inaspettato come invece i subbugli di Gea. Ma la botta è dura lo stesso.

Cerchiamo però di dare un ordine eupallico alla cosa, per non farci travolgere dal qualunquismo e dal letame che alcuni media specializzati - quelli orfani del Caimano per intendersi - usano come linguaggio per tutte le stagioni e amano scagliare vorticosamente. Scrive giustamente Giovanni Bianconi sul "Corriere della sera" di oggi [leggi] che questa ennesima indagine - che uno dei suoi inquirenti di punta, uno dei tanti magistrati che ama parlare in pubblico, Guido Salvini, ha definito "non meno grave di fenomeni di corruzione che avvengono nel campo politico-amministrativo" - rischia di acuire la disaffezione degli italiani non solo dalla politica ma anche dal calcio.

E qui sta il punto. Quale calcio? Quello intossicato dal tifo e dalle contiguità criminali? Quello del "devi morire" e del "meglio ladri che gobbi"? C'è solo da auguarsi che gli appassionati prendano le distanze da un ambiente in cui i giocatori sono ultras e gli ultras presidenti e i presidenti dei faccendieri e i giornalisti delle prostitute per tifosi utilizzatori finali, in un cerchio magico e grottesco.

Tra tante vestali del moralismo in servizio permanente effettivo, assumiamo un punto di vista morale molto semplice, guidato dal buon senso: gli inquirenti vadano fino in fondo, i giudici siano giusti, le pene siano severe e soprattutto senza sconti. Ma non si creda poi che il problema possa rimuoversi così. Il calcio non è solo un'industria ma una pratica sociale, planetaria. Vive in simbiosi con l'evoluzione della società e non su Marte o in una linda bolla di anime belle.

Una delle pagine più brutte
della Germania del Novecento
I giocatori e gli allenatori sotto inchiesta in Italia hanno probabilmente intascato soldi che vengono da Singapore, passando attraverso le reti criminali slave e ungare e non solo campane. Il qualunquismo mediatico internazionale vuole che sia l'ennesima conferma dell'immagine infetta del nostro paese. Giovanni Trapattoni è sincero quando dice "che lasciamo una brutta immagine del nostro calcio. Da italiano la prima sensazione è che veniamo derisi all'estero, rimane il fatto che venivamo sempre additati come intrallazzoni, mafiosi e questo fa male perchè io posso dire di aver pagato lo scotto di un atteggiamento che ci coinvolge tutti". Ma - si noti - siamo ai soliti cortocircuiti sugli stereotipi nazionali, come ha confermato subito certa stampa tedesca.

In realtà, il giornalismo serio di inchiesta - come quella condotta dalla "Gazzetta dello sport" tra il dicembre 2010 e il febbraio 2011 - ha messo bene in evidenza come siano coinvolti moltissimi campionati in Europa e nel mondo: non solo quelli italiani, ma anche quelli tedeschi, svizzeri e turchi per stare al certo delle inchieste in atto in vari paesi (in Turchia, per chi non lo ricordasse, è finito in prigione addirittura il presidente del Fenerbahce, e la Federazione calcistica locale ha congelato le retrocessioni per non evirarsi delle squadre di vertice e per non causare rivolte di popolo). Anche molte partire della Champions League sono sotto osservazione, come sa bene Michel Platini. E d'altra parte le non limpide assegnazioni degli Europei all'Ucraina e alla Polonia o dei Mondiali alla Russia e al Quatar mostrano come il pesce puzzi dalla testa.

Attenzione, però: non invochiamo qui il "tutto il mondo è paese" per lavarcene cinicamente le mani. Tutt'altro. Invochiamo al contrario una presa di coscienza generale che non può che passare attraverso la conoscenza e la cultura. Come in molti altri settori della nostra vita attuale occorre un forte investimento, individuale e collettivo, in educazione, e in cultura umanistica in particolare (latino e greco, arte e storia, letteratura e linguistica, etc., per intenderci: sì, proprio quella che non fa mangiare). Solo con questi strumenti si possono superare la povertà intellettuale degli stereotipi e della pornografia mediatica che ammorbano l'analisi della crisi greca quanto quella del calcio corrotto.

1963: Pier Paolo Paolini intervista i giocatori del Bologna
per il suo film inchiesta Comizi d'amore
Lo aveva capito benissimo Pier Paolo Pasolini, uno dei figli prediletti di Eupalla e uno dei pochi veri intellettuali italiani del Novecento, quando andava a intervistare sui temi del costume e dell'eros i giocatori del Bologna della generazione dei Pascutti e dei Bulgarelli (che notò, in realtà, come PPP avesse "un gran desiderio di parlare di calcio: io provavo a ribellarmi, a me interessava altro, ma lui monopolizzava tutti i discorsi, voleva sapere tutto dell’ambiente in cui vivevamo"), o quando ci ricordava che il catenaccio "è un calcio di prosa basato sulla sintassi, ossia sul gioco collettivo e organizzato, e che il suo solo momento poetico è il contropiede". Non era un ingenuo sognatore, non inseguiva le lucciole, ma il mistero della vita in una delle sue epifanie più espressive e conturbanti.

Nello sguardo tenero e riconoscente di Pep Guardiola ai suoi prodi, nelle pensose passeggiate mani dietro alla schiena di Marcelo Bielsa, nello studio attento e prodromico dei rigoristi del Bayern da parte di Petr Čech, in una partita monumentale come quella di Didier Drogba alla Fußball Arena di Monaco stanno ancora - e proprio nei giorni a noi più prossimi nel ricordo - la vera essenza, l'intensità e il mistero del gioco più bello del mondo. E' da qui che occorre ripartire, senza bende sugli occhi ma anche senza infingimenti.

28 maggio 2012

Un lato del quadrilatero

Se tutto andasse in un certo modo - e comunque in attesa che tra sentenze, penalizzazioni e squalifiche sia ridisegnata la geografia dei vari campionati -, l'anno prossimo potrebbero disputare l'italica serie B due club il cui stadio è intitolato a Silvio Piola. Il Novara e la Pro Vercelli. Notevole è l'impresa della Pro: artigliato l'ultimo posto utile per i play-off, ha poi eliminato il più che favorito Taranto, e ora se la vedrà con la matricola Carpi, la cui parabola è simile a quella del Mantova di Mondino Fabbri, nella sfida decisiva. L'ultima partecipazione della Pro al torneo cadetto risale all'immediato dopoguerra, stagione 1947-48, quando il campionato era articolato su tre gironi, per complessive 54 squadre, di cui 32 destinate a retrocedere (un'ecatombe) per via del programmato ritorno al girone unico a far data dalla stagione successiva. Certo, per il glorioso club (fondato nel 1892 ) gli anni d'oro erano già lontani, e l'ultima stagione ballata sui campi della serie A fu quella immediatamente successiva al mondiale domestico.

Naturalmente il club, declassato e con un bacino d'utenza non competitivo, ha conosciuto in anni recenti (come molte società di antica tradizione) la 'tragedia' dell'estromissione dal campionato per inadempienze finanziarie [vedi qui], e la conseguente caduta nella voragine della Terza Categoria. La risalita è stata possibile grazie alla sostanziale unificazione con la seconda società cittadina, la Pro Belvedere Vercelli, nata nel 1912  e per anni serbatoio della 'vera' Pro, la cui storia si esaurisce nel 2006 grazie alla fusione con l'Associazione Sportiva Trino Calcio e alla possibilità di iscrivere una squadra al campionato di Serie D. Vicende complicate, che ben testimoniano e simboleggiano le tare del sistema calcistico italiano di quest'epoca (i costi eccessivi e l'eccessivo numero di tornei professionistici, l'indebitamento delle società, i tanti personaggi senza scrupoli e senza passione che dal football molto hanno provato a lucrare, una totale assenza di controllo e governance a livello istituzionale e così via), avviato a un declino che porta con sé lo smarrimento della memoria storica e il sacrificio delle migliori tradizioni.

Silvio Piola (1913-1996)
Ma tant'è. I devoti sperano di rivedere le bianche casacche sui palcoscenici principali; di risentire l'odore dell'erba del vecchio Robbiano, stipato dai figli dei figli di chi vi poté ammirare le gesta di calciatori leggendari. E immaginano un sorriso sul volto di Silvio Piola, che dal cielo di Eupalla volentieri tornerebbe, magari per un solo giorno, e per una sola partita, e per un solo gol, a trascinare la sua vecchia Pro.

22 maggio 2012

L'attesa sta finendo

PGE Arena, Gdańsk
Qui il 10 giugno 2012 i campioni uscenti giocheranno contro l'Italia la prima partita del gruppo C

Ci siamo. Mancano davvero pochi giorni all'inizio del 14° Campionato europeo. Come sostengono alcuni, gli Europei rappresentano la competizione più difficile da vincere, più dei Mondiali perché raccolgono un nucleo di squadre di alto livello senza le cadute di tono oceanico, asiatico ed africano che zavorrano i tornei universali. Credo sia vero, come confermano i confronti immediati che si avranno nei primi giorni tra Spagna e Italia, Olanda e Germania, e Francia e Inghilterra. Le vittorie di Cecoslovacchia, Danimarca e Grecia in edizioni passate ne rappresentano la conferma. Sono anche questi tra gli ingredienti di uno spettacolo di buon livello. Il tempo mite e le piogge leggere che accompagnarono la scorsa edizione contribuirono a loro volta a farne una delle edizioni più belle di sempre. Speriamo che il ritorno delle mezze stagioni consenta anche quest'anno di vedere squadre toniche. Che Eupalla sia con noi.

20 maggio 2012

Il ritorno di Zdeněk

Negli spiccioli di emozioni conclusive della stagione italica, questa domenica regala anche il ritorno alla A di uno dei nostri preferiti, Zdeněk Zeman, visionario allenatore di provincia, profeta del bel gioco, capace di dare il meglio di sé con rose di giovani da plasmare, come in questa bellissima annata pescarese ("Più che un secondo papà, sono ormai un secondo nonno", dixit). E dal palmarès noncurantemente vuoto. Legato a un credo antico: "Da piccolo a Praga mi dissero 'prendi qella posizione' e mai 'prendi quell'uomo': da quel giorno non ho più cambiato idea, sarebbe stata la zona il mio modulo di gioco ideale". Uomo di culto e oggetto di odi (e non solo di odii) [vedi qui]. Bentornato Zdeněk: e speriamo che il presidente del Delfino Pescara 1936 non ci faccia uno scherzo. L'ennesimo di questo calcio in cui, come dici tu, "non esistono più le bandiere, perché ormai comandano la politica e l'economia".

20 maggio 2012, Stadio Luigi Ferraris, Genova
Espugnato anche il campo della Sampdoria e con la matematica certezza della promozione in Serie A,
anche un mutanghero apparentemente glaciale come Zdeněk Zeman scioglie in lacrime le sue emozioni:
 "Credo che sia stata la più grande soddisfazione della mia carriera" 

Bentornati Granata

20 maggio 2012, Stadio Olimpico, Torino
Dopo tre lunghissime amare stagioni nel campionato cadetto il Torino FC conquista una meritata promozione in serie A. Qui sopra: un supporter festeggia l'evento con il più classico degli sfottò rivolto agli odiati cugini bianconeri, freschi campioni d'Italia in odore di "double".

Degian

Vince sempre il migliore

"Vinca il migliore! Cio', speremo de no". Quando la finale di Champions tra Bayern e Chelsea si è avviata ai rigori mi è tornata in mente la memorabile battuta del Paròn delle sue prime stagioni vincenti padovane. Era percepibile infatti che i favori di Eupalla si stessero indirizzando verso i londinesi.

19 maggio 2012, Fußball Arena, München
La splendida incornata di Didier Drogba, uno degli eroi della finale
C'era però qualcosa che non mi tornava. E anche le dichiarazioni dei monacensi e di molti commentatori dopo la partita sul fatto che non avesse vinto chi lo meritava non mi convincevano. Non è qui da mettere in gioco una questione astratta su cosa significhi "essere migliore" o "meritare", ma non mi convince l'idea (e il pregiudizio) che il Chelsea non sia stata la squadra migliore e più meritevole dell'edizione stagionale del più prestigioso torneo pedatorio del nostro continente.

Non si arriva per caso in finale di Champions. Ci si può arrivare con l'aiuto della fortuna, ma non perché non si meriti. Certo, tutto il Barça sogna ancora i pali, le traverse e le occasioni stregate che gli hanno precluso la finale, che per qualità di gioco avrebbe meritato anche quest'anno (come nel 2010) nonostante gli appannamenti armonici. Ma il Chelsea ha segnato 3 reti ai catalani, di cui due nella tana del lupo. Così come il Bayern aveva meritato ampiamente di prevalere sul Real, proprio per la qualità del gioco e al di là dei 3 gol messi comunque nel sacco a Casillas.

Il disegno di Eupalla in realtà è chiaro se lo si vuole leggere. Perplessa anche lei (e noi con lei) dell'andazzo finanziario che sta trasformando il gioco più bello del mondo, ha tenuto sulla corda il petromagnate fino a quando poteva senza danneggiare il gruppo di buoni giocatori che meritavano l'alloro da tempo: in questo modo il figlio di Abramo è stato costretto a sborsare la bazzecola di 2.500 milioni (5 miliardi di lire del vecchio conio) per mettersi in bacheca la coppa, i giocatori hanno avuto il loro riconoscimento, e - come plus (pronunciasi plus e non plas: la lingua è il latino) - ha accolto in grembo l'allenatore più estemporaneo della gestione russa. Ai suoi occhi non meritava Mourinho e nemmeno Ancelotti, tantomeno Scolari o Villa Boas. Un segnale era già stato il bonus dato a Grant, finalista non premiato insieme a Terry e alla sua zolla nel 2008. Insieme a Drogba e a Cech (che aveva studiato tutti i rigoristi: si è buttato sempre dalla parte del tiro, si noti), e allo spirito del gruppo, l'eroe della cavalcata finale è stato infatti Roberto Di Matteo.

Jonathan Wilson [qui] gli riconosce giustamente tutti i meriti tattici, notando sottilmente come non si tratti affatto del catenaccio predicato da Gioanbrerafucarlo (perché quello prevedeva il "libero", lo sweeper [questa invece è lingua inglese, si pronuncia suuiper e significa "spazzino"], alle spalle della linea dei difensori) ma dello spirito migliore del catenaccio. Col Barça RDM era stato costretto a parcheggiare l'autobus a due piani in area: ieri no, non s'è visto nulla di tutto ciò (anche perché gli interpreti erano seconde scelte), ma un'attenta e magistrale gestione del gioco e del tempo. Mano a mano che i manzi tedeschi si sfiancavano sono usciti dalla propria metà campo i Blues, che hanno tenuto in mano il gioco dall'80° al 110° circa. Non a caso è stato proprio allora che hanno beccato il gol di Muller perché appena un po' scoperti.

"Das ist ein absoluter Albtraum"
I Roten devono invece ringraziare Arjen Robben che con la serata di ieri ha definitivamente mostrato i suoi limiti di classe e temperamento: è un onesto pedatore, talentuoso, mai decisivo quando conta (vedi il 115° della finale contro la Spagna nel 2010), molto sopravvalutato (come tantissimi altri ronzini di questi tempi glamour [anche questo è inglese, ahimè, ma pare si dica così ormai]) dalla critica nesci. Il suo avatar su Fifa 2012 è certamente più bravo di lui. Semmai c'è da interrogarsi su come mai i bavaresi abbiano perso 5 finali su 9 nella loro storia. Certamente soffrono le inglesi: 0-1 dall'Aston Villa nel 1982, 1-2 dal Manchester nel 1999, ieri il Chelsea; e, in effetti, notava con serafico spirito british David Lacey alla vigilia [qui] che gli inglesi hanno quasi sempre battuto i tedeschi nelle finale europee di club (5 a 1 con ieri). Ma a loro merito va ascritta la capacità, tutta teutonica, di essere arrivati in finale 4 volte nelle ultime 14 edizioni: solo il Manchester United ha fatto altrettanto.

Una considerazione conclusiva la merita Roberto Di Matteo: è grazie al suo magistrale gioco all'italiana che il Chelsea ha vinto, quasi fuori tempo massimo, la Champions'. E' il settimo allenatore italiano a vincerla (dopo Rocco, Trapattoni, Sacchi, Capello, Lippi e Ancelotti, e scusate se è poco), il primo con una squadra non italiana. Non credo debba dare prova ulteriore del suo talento per essere ritenuto un ottimo allenatore. Non ha vinto per caso, ma con merito: alla fine, vince sempre il migliore.

Azor

Calci di rigore

19 maggio 2012, Fußball Arena, München
Sul dischetto del rigore è Bastian Schweinsteiger
"Top moment of my career", ha detto della finale appena vinta un giocatore del Chelsea. Paradossalmente, si tratta di uno la cui fatica maggiore, in serata, è stata quella di sollevare la coppa appena ricevuta dalle mani di Platini. Nessuna prodezza sul campo, e nessuna nefandezza: lui che aveva sbagliato un penalty decisivo a Mosca nel 2008, ieri sera scontava una squalifica ed è rimasto estraneo alla vicenda agonistica. Probabilmente non sarebbe andato sul dischetto, chissà. D'altra parte, freddezza e cinismo non sono certo le qualità principali di John Terry; e la crudele sequenza di Monaco ha dimostrato, nonostante i luoghi comuni, che affidare l'esito di un match ai calci di rigore non ha nulla a che vedere con la fortuna. Non si tratta, come amano dire i telecronisti italici usi alla provinciale metafora, di una 'lotteria'.

Riesaminiamoli uno per uno [da qui].

Lahm (gol). Un lampo di paura è restituito dalle telecamere. Esecuzione appena discreta, a mezza altezza ma di scarsa potenza. Cech devia soltanto, ma avrebbe potuto far meglio.

Mata (parato). Mancino, latino, senza passato a Stamford. Va sul dischetto con sicurezza forse eccessiva. Colpisce male, non angola. Facile parata di Neuer.

Gomez (gol). Non ha disputato una grande partita. E' un bomber. Ha carattere, non vuole pesi sulla coscienza e si vede. Esecuzione impeccabile: Cech intuisce, ma ci potrebbe arrivare solo con un movimento anticipato oltre la soglia tollerabile dall'applicazione consuetudinaria (permissiva) del regolamento.

Luiz (gol). Tranquillo. Rincorsa lunghissima e sunza indugi. Neuer decide di tuffarsi a destra; Luiz aveva deciso di piazzare la palla a sinistra. "Vada come vada", sembra pensare, e gli va bene: l'angolazione non sarebbe stata sufficiente.

Neuer (gol). Battitore a sorpresa, ma è 'caldo'. Che non sia uno specialista e che l'esercizio sia solo recente si capisce bene. E' destro, e quindi scolasticamente incrocia. Angolazione modesta, potenza appena più che sufficiente. Un portiere più esplosivo (e più giovane) di Cech avrebbe neutralizzato.

Lampard (gol). Deve avere una gran rabbia in corpo e nella testa ma la sa occultare. Lui a Mosca non aveva sbagliato, anche se non era (e non è) uno specialista. Esecuzione teoricamente pessima, centrale ma sotto la traversa. Ritiene probabile che Neuer vada su un angolo, ma Neuer non si sposta: forse perché sorpreso, il tedesco non reagisce in tempo utile.

Petr Čech ha già alzato la manona destra
con la quale neutralizzerà il rigore di Ivica Olić
Olić (parato). Il tiro non è potente ed è 'alto'; ma è bene angolato. La classe di Cech qui emerge chiarissima. Vola dalla parte giusta (la sua sinistra) ma sarebbe battuto se non richiamasse il destro, riuscendo a respingere.

Cole (gol). Sa che non può e non deve sbagliare. A Mosca non aveva sbagliato. Un piccolo passo di danza prima dell'impatto ha lo scopo di disorientare Neuer. Sinistro incrociato, potente e angolatissimo. Imparabile.

Schweinsteiger (palo). Quinto rigore, decisivo. Prende tempo. Si rigira il cuoio tra le mani, pesta il gesso sul dischetto. I lineamenti del volto sono contratti; è palesemente terrorizzato dalla sola ipotesi di non trasformare. La rincorsa è breve, e al quarto passo la interrompe perché vede Cech fintare il tuffo alla propria destra. Evidentemente cambia idea. Angola troppo, e centra il legno di sinistra. L'astuzia del portiere col casco ha il sopravvento. Schweinsteiger nasconde il volto dentro la maglia del Bayern. Sembra imploso. Sembra preda della vergogna, più che della disperazione.

Drogba (gol). Ha spalle ed esperienza sufficientemente ampie, inoltre sa che l'occasione è ghiottisima e che altre in carriera non ne avrà. Sa che la sua squadra è in debito con Eupalla da svariate stagioni di CL. Insomma, il momento atteso da anni è finalmente arrivato. Lo assapora passeggiando lentamente fino all'area, col pallone in mano. Mormora qualcosa fra sé e sé. La sua rincorsa è brevissima: due passi. Esecuzione impeccabile: bassa, veloce, incrociata, abbastanza angolata. Neuer si perde nel nulla, verso l'angolo opposto a quello in cui l'ultimo pallone si depositerà.

Non va dimenticato che, nel primo tempo supplementare, Robben aveva sprecato il possibile match-point (solo possibile, non sicuro, vista l'enorme capacità dei Blues di riemergere proprio quando il mondo li dà per spacciati) dal dischetto. Certamente, provato dall'errore, privato di qualsiasi forma di autostima, col morale sotto i tacchetti, ha preferito non entrare nella lista dei cinque. O forse non ce l'ha voluto Heynckes. Forse avrebbe fallito di nuovo, forse no. Resterà in molti il dubbio che, in fondo, uno specialista può anche non fallire due volte in mezz'ora; che è comunque un errore non costringerlo, anche controvoglia, a provare. Che, in una catena di errori imprevisti, è stato forse quello solo possibile ma che si è preferito a priori scongiurare a decidere l'esito della finale.

Mans

17 maggio 2012

Lingua e tradizione

La Juventus rivendica in questi anni con orgoglio la propria tradizione, che si intreccia da quasi un secolo con la famiglia Agnelli, e con quello che essa ha significato per la storia d'Italia, per il ruolo svolto dalla FIAT nello sviluppo sociale ed economico del paese, per la funzione culturale che la squadra meno torinese di Torino ha interpretato offrendo un'identità comune a una larga minoranza di italiani, per l'evoluzione del costume che la famiglia e la squadra hanno a lungo influenzato.

La prossemica e lo stile di Michel Platini e Gianni Agnelli
Si tratta di una rivendicazione fondata perché la Juventus è oggettivamente un pezzo di storia d'Italia, per la sua epopea popolare e per la sua funzione sociale, che nessun'altra squadra ha saputo interpretare a tal punto. Né il Milan, che si è definitivamente emancipato dalla sua dimensione locale (popolare e cittadina innanzitutto) solo in coincidenza con l'avventura mediatica di Silvio Berlusconi (lui sì, l'ultimo "arci-italiano"), ma senza fondare una propria epopea nazional-popolare, ed anzi inimicandosi una larga minoranza del paese, quella che per diciotto anni è stata ostaggio della propria ossessione politica per il Caimano. Né l'Inter, la cui identità storica è rappresentata dall'oscillazione tra un angusto provincialismo (rimarcato dalla conversione fascista in Ambrosiana) e una vocazione internazionale che nessun'altra squadra italiana possiede (dall'epopea degli anni sessanta alle formazioni senza giocatori italiani degli ultimi anni), che ora si alimenta anche con nobili progetti sociali come l'Inter Campus, che non possono però intercettare l'umore profondo del paese.

Non è dunque un caso che le maglie della Juventus vestano ricorrentemente la tricromia nazionale a rivendicare la tradizione. Né che la squadra abbia riavviato un ciclo ripartendo da un nucleo di campioni e di giovani giocatori italiani. La Juventus non è solo la Vecchia signora ma anche la Fidanzata d'Italia.

La tradizione passa però anche attraverso la lingua, come ci insegnano gli storici, i linguisti e gli antropologi. La squadra porta un nome latino: juventus ("gioventù, giovinezza"). E sul latino ha apparentemente investito anche negli ultimi anni: dapprima festeggiando il suo centenario nel segno dello Juvecentus, un neologismo opinabile ma originale; si è poi data uno stadium ("stadio, lizza, arena per la corsa a piedi") e infine, inaugurato in questi giorni, anche un museum ("luogo sacro alle muse, accademia, biblioteca").

Concetto Marchesi (il latinista, senza parentela alcuna con il più noto Rino) si sarebbe probabilmente incuriosito per queste insistite ricorrenze. Ma avrebbe presto capito che esse non si rifanno né a un purismo classicista né alla tradizione italica. Rappresentano invece una concessione alla povertà di questi tempi dominati culturalmente dagli economisti (con i bei risultati che soffriamo nel nostro portafoglio e nel nostro futuro), di cui è triste specchio il gergo finanziario e aziendale farcito di anglismi. Come pronunciano gli stessi protagonisti, e come amplificano le provinciali trombe mediatiche, la Juve si è data infatti non uno stadio ma uno stédium, non un museo ma un musìum (e dire che, per la lingua inglese, stadium e museum sono dei latinismi ...).

La prossemica e lo stile di Giorgio Chiellini e Lapo Elkann
D'altra parte, l'attuale generazione che guida l'azienda e la squadra (i fratelli Elkann e Andrea Agnelli) incarna una contraddizione. Da un lato costituisce una felice eccezione anagrafica in un paese che ha la classe dirigente più anziana in Europa (notizia di oggi: 59 anni di media). Dall'altro però, per educazione, ha ormai annacquato la propria identità italiana per la proiezione internazionale propria a una parte della nostra classe dirigente più giovane (che ha frequentato scuole e atenei stranieri) e per un impoverimento culturale oggettivo: Gianni Agnelli collezionava donne e quadri antichi, Lapo Elkann solo donne (e non solo ...) e oggetti di lusso (i paparazzi non lo hanno mai beccato con un libro in mano o all'uscita di un museo di arte antica); l'onomastica familiare ha cominciato a darsi nomi senza radici come Oceano e Vita; e così via.

E' nei fatti che proprio nel momento in cui la dirigenza juventina rivendica la tradizione italiana si stia creando uno iato tra l'identità nazional-popolare della squadra (riassunta nel riscatto dalla questione meridionale che per generazioni di nostri connazionali originari del Mezzogiorno il tifo per la Juventus vincente ha saputo rappresentare, non solo a Mirafiori ma anche nei paesi del sud più profondo) e la prospettiva culturale che l'impoverimento linguistico prospetta.

La Juventus è ormai pionieristicamente avviata, in Italia, a valorizzare il brand sfruttando asset come le recenti location ... A costi culturali e - alla lunga - identitari non indifferenti. Quale sarà la riconfigurazione di senso conseguente al tifo per una squadra che non parla più la nostra tradizione? La risposta probabilmente è già stata data: la FIAT ha abbandonato e sta abbandonando gli stabilimenti  italiani e meridionali. Una prefigurazione: si punta al tifoso consumatore globale (che risieda in Canada o in Indonesia è indifferente). L’importante sarà “fidelizzarlo”.

Azor

14 maggio 2012

Mancini's time

C'è certamente molto di Roberto Mancini nella vittoria della Premier League al quarto anno della gestione emirale del Manchester City, e nel ritorno del titolo sull'Eastside dopo 44 anni. C'è di Mancini l'idea che il calcio ha basi tattiche ma si deve affidare pur sempre agli interpreti di qualità. Per l'intera stagione abbiamo visto uno stabile 4231 affidato ai giocatori più in vena del momento. Con clamorose vicende come il bando trimestrale di Tevez e quello di fine stagione di Balotelli: vicende, peraltro, altrettanto clamorosamente rientrate nel rush finale di quest'ultimo mese.

13 maggio 2012, Etihad Stadium, Manchester
I bambini sono la voce della verità?
Va detto, però, che anche per sua responsabilità, ieri pomeriggio, all'Etihad Stadium è andata in scena una delle partite più drammatiche della storia del calcio. Primo tempo di attenta gestione offensiva della manovra da parte del City sbloccata infine al 39° con la penetrazione in area di Pablo Zabaleta: tutto sembrava avviato verso il trionfo, ma l'infortunio di Yaya Touré (che aveva dato l'assit all'argentino) complicava tutto. Perso il loro vero leader, i Citizens perdevano peso e ordine e pagavano dazio a inizio ripresa su una cappellata di Joleon Lescott. Per 18 minuti la batteria dei nani (Aguero, Nasri, Silva e Tevez) ha riprovato a bussare alla porta dei Rangers senza che nessuno aprisse. Anzi - nonostante la follia di Joey Barton, reo di duplice violenza per un solo cartellino rosso al 55° - the Hoops finivano per uccellare comodamente in contropiede il City al 66° con Jamie Mackie.

A quel punto hanno cominciato a volare sul campo gli spettri del Maracanaço, della fatal Verona e del 5 maggio. Immediata l'adozione della torre Dzeko da parte del Mancio, rivelatasi inutile per altri dieci minuti di ruminatio. Finalmente al 76° la sconfessione di un voto e l'entrata di Mario al posto di uno spento Carlitos. Certo, giungeva in quel mentre anche la notizia del pari dello Stoke che condannava alla retrocessione i Wonderers anzi che i Rangers, ma pur in dieci questi si asserragliavano per puntiglio a fronte della disperata pressione dei Citizens.

L'entrata di Supermario - non preventivata alla vigilia da Mancini - ha dato la spallata decisiva, basta riguardare gli ultimi 20 minuti della partita: il City ha sostituito alla masturbatio grillorum dei piccoletti il peso dei suoi manzi. Quando ormai credevo di dover assistere allo shock della City side, il cammellone bosniaco ci ha messo la zucca al 92°, aprendo all'epos i tre minuti finali: dei quali ricordo solo Mario caduto in area ma ancora capace di una zampata da steso in favore di Aguero che ha incrociato l'apoteosi al 94°, e poi Hart avviarsi con la palla verso il corner alla sua sinistra interrotto solo dal fischio finale dell'arbitro. Nelle dichiarazioni immediate il Mancio riusciva a pronunciare solo un paio di aggettivi in lingua barbara: "incredible" e "crazy". In realtà Eupalla è stata benevola stavolta, ma il monito è chiaro: va bene cercare il gol con i giocolieri, ma non eccedere; il calcio è anche peso e forza atletica. Vedremo, dunque, se sarà un Mancini's time nei prossimi tempi. Davvero senza Balotelli?

Azor

13 maggio 2012

Un intenso week-end

Un weekend che resterà impresso a lungo nella memoria di chi l'ha seguito e nelle storie eupalliche di Germania, Italia e Inghilterra. Il double prussiano - Bundesliga e coppetta al Dortmund, che ha clamorosamente messo sotto i panzer del Bayern, che a loro volta avevano messo sotto sul piano del gioco le tristi stelle del Madrid e il loro egolatrico impresario - la dice lunga soprattutto sull'usura che la CL induce nelle menti e nelle gambe di chi gioca per vincerla: è stato paradossale che (per caso, per ottusità o per il superiority complex ispanico sviluppato a seguito dei trionfi recenti a tutti i livelli), a cavallo delle semifinali, dovesse decidersi la Liga scozzese, nel clàsico che ha logorato i muscoli già provati dei philarmonicisti e illuso oltre misura i Blancos (convinti ormai, avendo battuto i più forti, di essere i più forti a prescindere). A Monaco, certamente, il Bayern starà più sul pezzo.

In Inghilterra sarebbe stato interessante monitorare la serata di Manchester, se all'Etihad Stadium non si fossero improvvisamente dissolte, nei minuti di recupero, nubi da tragedia incombente. La rimonta del City sul derelitto QPR, rimasto in dieci sull'1-1 per l'espulsione di Joey Burton (indimenticabile l'espressione del suo volto un istante prima della pedata assestata ad Aguero) e poi immediatamente passato in vantaggio (indimenticabili gli insulti rivolti da Mancini ai suoi defenders nella circostanza), è poi evoluto in un 3-2 che consegna la PL agli Sky blues dopo interminabili decenni. In Italia si discuterebbe per anni sul fatto che l'arcigna resistenza dei Rangers si sia ammorbidita appena saputo che il Bolton stava precipitando nello spettacolare inferno della First al posto loro; in effetti, i due gol sono parsi se non altro 'puliti' sul piano regolamentare, e almeno apparentemente non gentilmente concessi da chi desiderava condividere un epilogo festoso. Il quadro è reso ancor più fantastico se si tiene conto e si ricorda che Mark Hughes (manager del QPR) è stato non solo una bandiera dello United, ma anche allenatore del City, silurato a favore del Mancio non più di tre anni or sono. La logica del foot-ball e i disegni di chi invisibilmente lo governa, come al solito, sfuggono; loro, che dicono di averlo inventato, ci sono abbastanza abituati, visto che episodi di questo genere sembrano abbastanza frequenti (basterà evocare la rimonta oltre il 90' dello United sul Bayern in una finale di CL di alcuni anni fa; o il gol decisivo, per l'assegnazione della Premier, di Michael Thomas in Liverpool-Arsenal, ultima della stagione 1988-89).

In Italia finisce non solo la Serie A, ma anche la carriera ad alti livelli di alcuni campioni epocali: Del Piero, Nesta, Gattuso, Inzaghi, Seedorf. Su cinque, quattro sono del Milan, e alcuni di loro non si sono spesi in parole di elogio per il capo, l'incapace generale che ha portato la truppa allo sbando trasformando Milanello in un ospedale da campo e mostrando di non sapere elaborare alcuna strategia per evitare un insuccesso da nessuno pronosticato. E' legittimo il sospetto che, a fronte delle più o meno velate critiche di tramontati ma auterevolissimi campioni, la permanenza in panca di Allegri (che il buon senso vorrebbe già molto lontano dal Milan) non sia una scommessa irragionevole ma una scelta precisa e coerente. Sarà lui alla guida tecnica del club nelle stagioni dell'inevitabile declino; la mediocrità agonistica programmata dall'azionista di maggioranza (disincentivato ad investire dalla stanchezza e da oneri finanziari non 'ordinari') sarà doverosamente gestita da un tecnico mediocre ma ben allineato e adeguato al nuovo contesto.

Cesare Prandelli, commissario tecnico della Nazionale italiana dal 1° luglio 2010
Prandelli ha messo a punto la lista dei convocabili per il campionato d'Europa che oramai incombe. L'impronta barcellonista immaginata da Cesare è confermata dall'assenza di un centravanti d'area: d'altra parte, gli unici (e di modestissimo livello internazionale) potabili erano Matri e Pazzini: la loro stagione è stata  così mediocre da consigliare di evitare ogni rischio. C'è Cassano, vivo per miracolo; c'è Supermario, una mina che non si sa mai nelle mani di chi potrebbe esplodere; c'è un volonteroso pedatore e poco più come Borini; una promessa già invecchiata come Destro; una vecchia volpe da campionato come Di Natale (il Pruzzo o il Beppe Savoldi dei giorni nostri, per intendersi). Non produciamo più attaccanti di autentico spessore, da qualche anno: gli ultimi grandi bomber italici sono da considerare Vieri e Inzaghi. Quanto agli altri reparti, spicca la chiamata di colui che - si dice - è destinato a raccogliere l'eredità di Pirlo. E' il play-maker del Pescara: Marco Verratti. Un futuro crack o uno destinato a svanire nell'ombra, quando sarà sottratto alla didattica quotidiana del maestro boemo? Impossibile dirlo ora. In assenza di grandi interpreti, ci restano la tradizione e la scuola. Speriamo siano almeno sufficienti a non sbracare e a scongiurare l'irrisione generale, già pregustata dentro e fuori i patrii confini.

Azor

12 maggio 2012

Una bella finale

Radamel Falcao è stato oggetto di ampia e meritata notorietà nei giorni appena trascorsi. Con due perle [rivedile qui] ha schiantato in meno di mezzora la difesa dell'Athletic, scaduta a mestissima broccaggine di fronte a cotanto bomber. Sappiamo che ha vinto da solo anche la finale dell'Europa League dello scorso anno col Porto, per poi passare all'Atletico Madrid per le modica cifra di 40 milioni: una follia presidenziale, perché è vero che occorreva sostituire degnamente Aguero, ma è altrettanto evidente che la rosa dei Colchoneros è buona ma non di primissimo livello, e Falcao appare meritare ben altri palcoscenici. Non a caso è dovuto arrivare in corso d'opera un ex come il Cholo per risollevarla. Simeone è un allievo di Bielsa, che ha avuto come CT della nazionale, e l'altra sera a Bucarest ha superato il maestro facendo mostra di modestia (una virtù che ha acquisito come allenatore, tanto il giocatore era sanguigno).

9 maggio 2012, National Arena, Bucarest
Radamel Falcao García Zárate scaglia nell'angolino
il primo gol della sua ennesima grande finale europea
La finale è stata bella, degna di questo nome. Primo tempo [qui] tutto dell'Atletico, che ha soffocato nella metà campo altrui, con un pressing mirato, l'avvio dell'azione dell'Athletic. Quando si è affacciato in area ha messo la palla nei piedi del suo bomber e ha incassato il dovuto. Schiacciati dagli avversari, i giovani centrocampisti baschi hanno palesato limiti di carattere ma anche tecnici, non riuscendo mai a saltare l'uomo e ad anticipare l'avversario. Bielsa ha cambiato cavalli all'inizio della ripresa e infatti l'Athletic ha dato il meglio di sé [qui] in quello che Wilson chiama "relentless attacking" e che ne ha caratterizzato la grande cavalcata europea di questa stagione. I Lehoiak hanno avuto le loro belle occasioni, un po' sciupate e un po' infrantesi sullo scoglio di un portiere di grandissimo avvenire (annotiamoci il nome), Thibaut Courtois, un belga in prestito sul Manzanarre ma di proprietà del Chelsea. Insieme a Neuer è al momento l'estremo europeo più giovane a mostrare grande concretezza (e risultati). Il sigillo dell'ex bianconero Diego è stato solo il segno della nemesi dopo tanto sciupio.

Rimarranno nella memoria le lacrime vere e dirotte di molti giocatori baschi alla fine della partita [qui le emozioni], consapevoli dell'impresa sfiorata dopo 35 anni e della difficoltà di ripeterla a breve, nonostante il bel calcio mostrato: verticale e tattico, come nello stile delle squadre del Loco. Ha vinto invece, con merito, la solidità di un calcio accorto ma non vocato alla sola copertura come quello proposto da Simeone (temprato dall'annata italica): 12 vittorie consecutive non sono casuali ma il segno di un grande torneo condotto dall'Atletico. Lo eccede, lo ripeto, il suo bomber: un bond sicuro, uno dei pochi attaccanti contemporanei capace di tenere palla in area e di puntare alla porta in tutti i modi (destro, sinistro, testa, botta, cucchiaio, zampata, etc.: vedine qui un repertorio). Un'epifania consolante.

9 maggio 2012

Bianco e nero

Dunque dobbiamo celebrare il ritorno dello scudetto sulle maglie bianconere dopo nove anni di attesa del suo popolo rancoroso. Uno scudetto meritato quanto buttato via dal Milan che possedeva un organico di qualità migliore. La differenza l'ha fatta la ricerca del gioco e il merito è tutto di Antonio Conte e della sua duttilità tattica, capace di valorizzare le qualità dei singoli e di mascherarne le lacune: l'assestamento del centrocampo intorno a Pirlo, Vidal e Marchisio è stata la chiave vincente, che ha blindato la difesa con la qualità (e senza bisogno dei Melo e dei Sissoko) e ha supplito con le incursioni da dietro all'incapacità dei suoi attaccanti (abituati per indole a ricevere la palla sul piede) di lanciarsi negli spazi, dove hanno invece giganteggiato gli esterni e i mediani, a cominciare da Lichtsteiner. La sostituzione di Pirlo con Van Bommel da parte di Allegri dice tutto sull'idea di gioco perseguita invece dal Milan attraverso le individualità: non solo il fagocitatore Ibra (mai come quest'anno è emersa, con l'età, la sua vocazione a spegnere l'azione anziché ad aprirla), ma anche le incursioni di Boateng e Nocerino. Nelle 36 partite disputate (suo record assoluto, segno della ritrovata giovinezza agonistica) Pirlo ha passato 326 palloni a Marchisio, 314 a Vidal e a Chiellini, 240 a Lichtsteiner e 220 a Bonucci [fonte "Gazzetta dello sport"]: non un playmaker, ma un vero kingmaker.

Conte e i suoi hanno mostrato il calcio migliore possibile in Italia in questo momento. Anche favorita dalle settimane passate nell'umidità di Vinovo anziché in giro per l'Europa, la squadra ha fatto molto didattica e i risultati si sono visti. Soprattutto, è l'unica squadra italiana che ha mostrato di saper correre per 90 minuti come accade nelle coppe, dove in genere le nostre pagano dazio sul ritmo e sulla tenuta (un gap che anche nella palla ovale è lampante nella nostra nazionale che regge per la sola prima ora). Mi auguro che non venga fuori che come ai tempi di Lippi e Guariniello la farmacia ha dato anche questa volta una mano (per la storia: "è stata ritenuta provata l'illecita somministrazione di farmaci ai calciatori della Juve, eccetto l'epo, la famigerata eritropoietina. Cala così un'ombra pesante sui più bei trionfi bianconeri della gestione Moggi-Giraudo: tre scudetti, una Champions League, due Supercoppe italiane, una Supercoppa Europea e una Coppa Intercontinentale": vedi qui). La storia della Juventus non è immacolata purtroppo e i sospetti fanno parte della sua identità, quanto l'arroganza: il tormentone della terza stella ne è solo il sigillo.

Ma stiamo al bel gioco che la Juventus ha saputo mostrare. Ora si tratterà di confermarlo in Italia e in Europa la prossima stagione: le premesse per l'apertura di un ciclo (che sarebbe il quarto dopo quelli di Carcano, Trapattoni e Lippi) sembrano esserci, grazie anche all'assenza di risorse (economiche ma anche morali) delle avversarie italiche. Dopo anni di errori, commessi anche dagli stessi Marotta e Agnelli (basterebbe pensare alla volontà di confermare Del Neri e all'acquisto di Ziegler nemmeno 12 mesi fa), il mercato estivo 2011 e quello invernale 2012 si sono rivelati azzeccati in entrata e in uscita (con qualche tara, ma ininfluente, come Esti, Elia, Pazienza, Padoin). La differenza in Europa potrà farla solo un attaccante di qualità: che è la necessità primaria. Staremo a vedere. Intanto grazie per il bel gioco mostrato in molte partite (con il Milan e l'Inter a San Siro, con la Roma, etc.): qualche lampo nella tenebra del calcio italico di questi anni.

Azor

7 maggio 2012

Il tricolore scucito

7 maggio 2012, Stadio Giuseppe Meazza, Milano
Zlatan Ibrahimović 
medita, a fine partita,
sulla sconfitta nel derby
La disfatta nel derby scuce il tricolore dalla maglie del Milan e lo consegna al sarto della Juventus. Vedremo se dai piani alti imporranno il gesto eversivo, affiancandovi la terza stella: un simbolo e basta, ma i simboli contano e molto. Certo la Juve ha meritato: per la continuità (non perdere mai in 37 partite, e saranno 38, è comunque performance apprezzabile, soprattutto perché questa squadra non sembra destinata ad entrare in storie calcistiche che non siano la propria e quella del declassato campionato italiano), per le capacità messe in mostra da chi l'ha guidata dandole un assetto robusto e capace di supplire a carenze fisiologiche, e per la superiorità tattica e dinamica evidenziata negli scontri diretti, compresi quelli di coppa.

La critica ha probabilmente sopravvalutata la forza del Milan, forse perché misurata sulla presunta debolezza della concorrenza. A Milanello non si è costruito un preciso meccanismo di gioco; si è confidato nell'ampiezza e nella qualità della rosa (che non può tuttavia essere pesata sommando la qualità dei singoli componenti), composta peraltro da molti giocatori anziani e (o) fisicamente malmessi, evidentemente male allenati: stasera si sono visti alcuni di loro sbullonarsi al primo impatto con un avversario (Bonera) o con il pallone (Abbiati). Palesi sintomi di inefficienza complessiva. Il gioco non c'è e non c'è stato perché Allegri, da quando è arrivato, ha progressivamente escluso dal roster i play-maker, o ne ha consentito l'esclusione (il riferimento a Pirlo è scontato) assecondando le ansie della società, bisognosa di rendere meno oneroso il monte-ingaggi. Assecondando così la propria ambizione di restare in sella, non sostenuta da capacità indiscutibili. Fra qualche anno, quando qualcuno chiederà come giocava il Milan di Allegri, difficilmente si potrà dare una risposta. Sarà evocato il gigante svedese, anarchico e solipsista (invecchiando è peggiorato), talora (come stasera) abulico e incline a spendersi solo se provocato, con tipico temperamento da bullo; si ricorderanno gli altri solisti, anarchici come lui (Cassano, Robinho, Boateng), e i mazzolatori della terra di mezzo, capeggiati dal legnosissimo Van Bommel. Si ricorderanno questi e altri giocatori, ma non un gioco, non un sistema o un progetto di gioco. Forse questo contribuirà a spiegare anche gli insuccessi in CL, e a mitigare un po' la retorica della vocazione europeista di una squadra ormai competitiva (ma non dominante) solo nell'orticello italico. Del quale sarà probabilmente padrona, per un nuovo ciclo, la Vecchia Signora.

Mans

6 maggio 2012

Italians

21 marzo 2012, Etihad Stadium, Manchester
I due Roberti per la prima volta contro da managers
Il weekend pedatorio europeo proponeva tre partite di rilievo: la finale della FA Cup e l'insidiosa trasferta del City a Newcastle in Inghilterra, il derby della Madunina in Italia. A farla da padrone sono stati gli italiani d'Oltre Manica. Roberto Di Matteo ha vinto con merito il torneo che gli inglesi reputano di maggior blasone su un Liverpool dimesso, in drammatico declino dopo gli anni d'oro di Benitez. Solo l'entrata di Carroll dopo un'ora ha dato peso a un attacco anemico affidato al sopravvalutato (nonché razzista) Suarez. Ai Blues è bastata l'esperienza dei suoi bucanieri per averla vinta: gol (largamente evitabile dall'impreparata difesa dei Reds) all'avvio, poi noiosa gestione e contropiede alla ripresa. Una palla mezza dentro / mezza fuori di Carroll all'80° (sempre nella porta orientale del Wembley Stadium, quella di Hurst per intendersi) avrebbe premiato oltre modo l'eretismo agonistico dell'ultima mezzora del Liverpool. Qualche protesta sul momento, una rapida moviola d'ufficio a fine gara su ESPN e poi silenzio su tutti i media: Galliani l'avrebbe messa subito sul telefonino, Allegri e Conte l'avrebbero continuata a raccontare ai nipotini e il blob mediatico italiota l'avrebbe macinata per anni ... Strette di mano alla fine tra tutti i contendenti e al massimo un "We were unlucky" da parte dei Reds. RDM è il primo italiano a vincere la FA Cup sia da giocatore sia da manager: ora l'attendono i Roten di München in questo suo strabiliante finale di stagione. A naso non è finita qui.

Roberto Mancini ha espugnato invece Newcastle con la sua armata (anch'essa sopravvalutata) grazie a un sagace attendismo tattico. Dopo un'ora di inane fraseggio dei piccoletti davanti (non ho contato un cross dalle fasce) fuori Tevez e dentro De Jong con l'avanzata di Touré a trequartista dietro ad Aguero e poi a Dzeko. Risultato: due gol molto belli di Yaya negli ulimi venti minuti. Il Mancio sta per coronare il suo capolavoro: una clamorosa rimonta sulla corazzata in panne dei cugini nelle ultime quattro partite. Sia detto ex ante: sarebbe pienamente meritato. I nesci osserverebbero che è facile vincere con i campioni. Balle: con una rosa valutata 590 milioni The Special One ha portato a casa una Liga (spagnola, scozzese o "de mierda" a seconda dei punti di vista) e una super coppetta in due anni (due soli tituli su sette trofei in palio). Non bastano i giocatori. Occorre anche il gioco: e il Mancio lo insegue da sempre, sia in campo sia in panchina, con duttilità e adattandosi ai giocatori (rombo all'Inter, 231 al City) e puntando sempre, alla fine, sulla qualità dei singoli. Dovesse vincere la Premier completerebbe una clamorosa quanto inedita doppietta italica in terra d'Albione.

La combinazione mette in rilievo la grandezza e insieme la debolezza del calcio inglese. Capace di accogliere i sudditi dell'impero e chiunque dimostri di meritare di entrare a far parte della sua élite, e di ospitare i tornei più cosmopoliti del pianeta eupallico. Gli inglesi in campo a Wembley ieri erano solo 9 su 26 [vedi tabellino] e oggi a Newcastle solo 9 su 28 [vedi]. E questo è il controvalore della proiezione mondiale: l'ultimo manager inglese ad aver vinto il campionato è stato Howard Wilkinson (sic!) nel 1992 con il Leeds, mentre l'ultimo a vincere una coppa internazionale è stato Howard Kendall nel 1985 con l'Everton (a meno di non contare Bobby Robson con il Barcellona nel 1997). La nazionale è perenne fonte di delusione per i sudditi di sua Maestà, che sono costretti a ricordare solo i due terzi posti del 1990 e 1996 dopo il non limpido trionfo casalingo del 1966. In un rigurgito di nazionalismo, dopo il mercenariato svedese e italico, la panca è stata ora affidata a quel buon uomo di Roy Hodgson. Sfido chiunque a dimostrare che sia un allenatore migliore di Fabio Capello: un altro Italian, nonostante il suo bad english. Senza dire dei manzi in campo: solo Rooney si erge a valore assoluto.

Azor

Omaggio a un campione

5 maggio 2012, Stadio Olimpico, Roma
Francesco Totti scocca di sinistro dal limite il pallone dell'1:0 al Catania
E così ieri sera, con la doppietta cucinata al Catania e preceduta da un pacchiano errore dal dischetto, il Pupone ha fatto 500 presenze in Serie A. Ha raggiunto Ciro Ferrara. Ne ha davanti solo dieci, ma l'unico in attività è il capitano della benamata, Javier Zanetti. Supererà probabilmente zio Bergomi (fermatosi a 519), Gianni Rivera (527) ed Enrico Albertosi (532), a tiro di una sola stagione. Se tiene, anche Piola (537) e Roberto Mancini (541) sono alla sua gittata. Per ora 500 partite, per ora 215 gol: uno in meno di Josè Altafini e Peppino Meazza. Se non si sfascia, li scavalcherà.

Sono numeri da leggenda vivente; osta, perché sia considerato unanimemente uno dei nostri grandi di sempre, il suo coefficiente eupallometrico, che risulterà penalizzato dall'aver militato in una sola squadra e per di più non appartenente alla ristretta élite italica. Brilla, nel suo palmarès, un titolo mondiale (2006, ça va sans dire) vinto sostanzialmente da comprimario, al termine di una delle sue stagioni migliori: Luciano Spalletti l'aveva impostato, da tipico trequartista, in centravanti atipico, una versione aggiornata di Hidegkuti; in gennaio Pelé lo defini senz'altro "il miglior giocatore del mondo" e menò gramo, perché una frattura del terzo medio del perone sinistro lo mise fuori da febbraio e per il resto del campionato, e soprattutto ne compromise palesemente le prestazioni al mundial tedesco, dove giostrò sotto ritmo e con deficienza dinamica. Gli restano tra le mani dunque, allo stato, uno scudetto, due coppette, due supercoppette. Poco. Troppo poco, per un campione sicuramente epocale (quale pedatore italiano può essere considerato finora, almeno nel XXI secolo, più bravo di lui?), tecnicamente e atleticamente perfetto (centimetri e tonnellaggio, corsa - certo, ora non più - e rapidità di visione, capacità di finalizzazione molto al di sopra della media).

Resteranno nella memoria giocate mirabili, qualche gol inimmaginabile o quasi, e nella mente un dubbio: non si fosse trasformato in icona e reliquia ante mortem (calcisticamente parlando) della sua unica squadra (squadra di città capitale, ma con anima decisamente provinciale), fosse emigrato a Milano o a Torino una decina d'anni or sono, quanti palloni d'oro dovrebbe spolverare ogni sera, invece di perdere tempo a chiedersi (e a sentirsi chiedere) se Luis Enrique è l'uomo giusto per un progetto che (se mai decollerà) certo non lo potrà avere per principale protagonista?

Mans

4 maggio 2012

Liga scozzese

Il presidente del Siviglia, José Maria Del Nido, l'ha definita una «Liga de mierda». Oxoniense espressione che traduce icasticamente i numeri: la terza e la quarta classificata, Valencia e Malaga, che andranno in Champions, sono a oltre 30 punti dal Real e dal Barça; le due finaliste di Europa League, Atletico Madrid e Athletic Bilbao, a quasi 50. I motivi sono noti (economici e politici) ma il dato di fatto è questo: il campionato spagnolo è divertente per i punteggi roboanti e i record polverizzati dalle due squadre, ma ormai si è ridotto al livello di quello scozzese quanto a palmarès.

2 maggio 2012, Estadio de San Mamés, Bilbao
Nel gesto ormai diventato di rito, José Mourinho è lanciato in trionfo
dai suoi giocatori dopo la conquista matematica della 32a Liga
José Mourinho corona la sua "prospettiva" vincendo nel quarto campionato diverso: non andrà molto oltre perché ha dichiarato che non allenerà mai in Germania e medita semmai il ritorno in Inghilterra prima di realizzare il suo sogno di allenare la nazionale del suo paese. Ma è un bel record e gli va dato merito. Allenatore tostissimo, capace di reggere pressioni enormi (nota Roberto Beccantini che la sua valvola di sfogo è il vittimismo, anche quando improbabile, come quando si siede sulla panca del Real), ha chinato il capo dopo la manita e una prima stagione in cui è stato asfaltato dal grande Barça del Pep, e si è rimboccato le maniche conquistando la Liga nei campi delle piccole squadre, là dove invece l'incerta stagione del Barça l'ha persa.

Eupalla però lo ha messo fuori dalla finale della Champions con un atto di giustizia: dopo aver sgominato CSKA Mosca e Apoel ha semplicemente incontrato un avversario superiore. Non è la prima volta che accade. La CL è il torneo più difficile ma anche quello che mette a nudo le qualità del gioco. Mourinho ha vinto una delle edizioni più modeste con il Porto e ha fatto il miracolo con l'Inter nel 2010, quando era già fuori a Kiev, ha beneficiato di generosi regali arbitrali con Chelsea e Barcelona (mettendo su al Camp Nou l'autobus a tre piani in area che Di Matteo ha rispolverato quest'anno), e meritato col Bayern in finale. Ma ha fallito ai rigori sia con il Chlesea sia con il Real.

Por què? Perché Mourinho gioca per se stesso ma non ha un'identità qualitativa, è camaleontico ma senz'anima. Scrive Santiago Segurola, vice direttore di "Marca", quotidiano fiancheggiatore del Real: "C'è più soddisfazione che felicità a Madrid. C'è distanza emotiva tra pubblico e squadra. C'è una ragione evidente: il Real non ha trasmesso in nessun momento un messaggio di felicità. E' stato un bunker, con una strategia di comunicazione basata sulla repressione. Una strategia che ha trasmesso ai tifosi un messaggio frustrante, ancor più di questi tempi spietati, con un paese distrutto economicamente e moralmente, con quasi sei milioni di disoccupati e una sensazione di collasso assoluto".

"Giocar male e vincere" mi sentenziò un amico spagnolo nell'estate del 2008 quando Mourinho era appena arrivato all'Inter. E così è stato e continua a essere. E' il suo grande limite: passerà alla storia dei palmarès (il suo coefficiente eupallico raggiunge ora i 44 punti: il che non è poco), ma difficilmente a quella del calcio. Sono pochi, in effetti, gli allenatori che hanno saputo combinare entrambe le cose: e sono i veri immortali perché vivono perenni nella memoria di tutti.

Azor