24 agosto 2012

Palloni giocabili: Brasile, SPAL, Serie A, Ultras tedeschi, Belgio

Segnalo ai colti e agli incliti (quorum ego) alcuni interessanti articoli apparsi di recente (ma anche tempo fa) su varie testate, che forse meritano una lettura.

Jonathan Wilson, sul "Guardian" del 14 agosto 2012 - Olympics exposed flaw at the heart of Brazilian football [leggi] -, analizza i problemi della nazionale e del calcio brasiliano attuali, evidenziati dall'ennesimo insuccesso olimpico. Stretto tra la politica tecnocratica che, sacrificando lo stile individualistico a un gioco di squadra organizzato e programmato, ha fruttato i titoli mondiali del 1994 e del 2002 (e la finale del 1998) e la prima coppa America fuori casa nel 1997, e le sirene del marketing (sullo stilema Nike) che costringono la generazione Neymar a forzare la vocazione giocolieristica, il Brasile vive la contraddizione di un insieme di specialisti che fatica a farsi squadra, capace di stravincere con le compagni più deboli e di perdere con quelle più organizzate, da ultimo il Messico.

La formazione della SPAL del 1961-1962,
anno della finale di Coppa Italia.
La più celebre maglia a strisce bianche e azzurre
sarebbe stata adottata solo dall'anno successivo
Sempre il 14 agosto 2012, su "In bed with Maradona" [IBWM], Steve Mitchell dedica un inspirato necrologio - Italian football mourns the loss of an elder statesmen [leggi] - al fallimento della Società Polisportiva Ars et Labor (SPAL) di Ferrara - cui, va detto, la stampa italiana specializzata non ha dedicato alcuna attenzione -, ricordandone la gloriosa storia centenaria, la memorabile presidenza di Paolo Mazza (col 5° posto in seire A nel 1960 e la finale di Coppa Italia persa di misura con la Lazio nel 1962), il ventaglio di ottimi giocatori (poi anche tecnici) che vi militarono (da Edi Reja a Fabio Capello, da Carlo Mazzone a Osvaldo Bagnoli, da Ottavio Bianchi a Luigi Del Neri), fino alle tristi stagioni recenti e alla rifondazione, dalla serie D, affidata ora alla Real SPAL.

Maurizio Crosetti, su "Repubblica" del 22 agosto 2012 - Il campionato dei ragazzini [leggi] -, introduce il campionato di Seria A evidenziando una serie di dati importanti, primo tra tutti il ringiovanimento delle rose (dai 27,5 ai 25,8 anni), la diminuzione del 15% del monte stipendi, il mercato in attivo, etc., che fanno sperare in un'inversione di tendenza del calcio italiano d'élite verso una più oculata gestione delle risorse umane e finanziarie. Più per necessità che per virtù, ovviamente. Ma la tendenza appare importante.

La "Frankfurter Allgemeine Zeitung" dedica il 23 agosto 2012 una serie di articoli al problema, montante negli ultimi mesi in Germania, delle violenze degli ultras: si può muovere da quello di Michael Ashelm, Zwischen Krawalltourismus und Hysterie [leggi], attivando poi i link agli altri servizi (tra i quali un'interessante intervista allo psicologo Martin Thein [leggi], autore del recente studio Ultras im Abseits? Porträt einer verwegenen Fankultur [scheda]). E' forte la preoccupazione, infatti, che il 50° anniversario della Bundesliga venga rovinato dalle violenze sempre più diffuse (e mai riportate dalla stampa italiana) tra gli ultras delle squadre tedesche di ogni divisione: il pericolo è che il campionato che ha raggiunto negli ultimi anni, con la costruzione dei nuovi stadi, la media più alta di spettatori a partita in Europa (44.300), venga infiltrato dalla violenza, con costi anche economici che le autorità di polizia ritengono sempre più alti da sostenere. Che il tema sia di attualità nel mondo tedesco lo conferma anche il mensile austriaco "Ballesterer", che dedica la copertina e un ampio servizio del numero di settembre 2012 - Die letzte Schlacht. Ultras in Deutschland [leggi] - alla questione. In Italia, dopo i fuochi dell'11 novembre 2007, il fenomeno cova invece nella cenere nell'apparente distrazione di stampa e autorità: fino al prossimo morto.

Focus
Su una interessante rivista edita da meno di un anno da giovani appassionati spagnoli, "Kaiser", Irati Prat ha il merito di evidenziare - El futuro del futbol pasa por Belgica [n° 10, 16 aprile 2012, pp. 22-23: leggi] - le grandi potenzialità della nuova generazione di giocatori belgi, forse la migliore dai tempi di quella guidata da Guy Thys al secondo posto di Euro 1980 (che annoverava campioni come Pfaff, Cuelemans, Van der Elst, etc.). Grazie anche all'integrazione multietnica, il Belgio può ora schierare una formazione che vede giocatori come Courtois, Kompany, Vertonghen, Vermaelen, Witsel, Fellaini, Dafour, Hazard, Lukaku, Mertens e vari altri (tra i quali il veterano Van Buyten), che giocano nei maggiori campionati in giro per l'Europa. La qualificazione ai Mondiali 2014 potrebbe essere alla sua portata, benché sia inserito in un girone tra i più ostici (con Croazia, Serbia, Macedonia, Scozia e Galles) [fonte]. Peraltro, la nuova leva belga era stata segnalata un anno fa anche da Josef Linhoff in "IBWM", 13 settembre 2011 - The future's bright, the future's Belgium [leggi]. La stampa "specializzata" italiana ovviamente non se ne è finora accorta, con la parziale eccezione del colto Paolo Condò [leggi].

Azor

22 agosto 2012

Un week end "afro"

Ho approfittato del week end torrido per chiudermi in casa, confortato da amorevoli ventilatori vintage, per guarducchiare alcune partite delle prime giornate dei campionati che hanno preso avvio. L'occasione è stata buona anche per vedere all'opera alcune squadre che poi perdiamo di vista nel corso della stagione: Southampton, Ajaccio (e Lorient), Real Sociedad, gli stessi Valencia ed Everton, etc.

L'atmosfera incantevole di una notturna (invernale) al Goodison Park
Premier League e Liga hanno ricominciato secondo i copioni ormai consolidati. Le partite della prima sono come sempre mediamente gradevoli, il gioco è votato all'attacco e il ritmo asseconda il piacere degli spettatori che ne riempiono gli stadi. Colpisce davvero l'assenza di striscioni, di carte e coriandoli, di fumogeni e di petardi: non si notano ultras ma bambini e ragazze, nessuna torcida rinchiusa dietro alle sbarre come in molti stadi del sud America, nessun fuoco che arde sugli spalti come nelle arene balcaniche. Viene davvero da chiedersi dove siano finiti gli hooligans, e da affliggersi per le orde di violenti cui è ancora permesso di imperversare negli stadi italiani. Ben vengano dunque i progetti di rimozione delle inferriate come quello avviato dalla Fiorentina, anche se l'impressione è che fino a quando le dirigenze delle società non si decideranno a spezzare il legame torbido e ambiguo con i teppisti, e con la mitologia della "curva", non verremo a capo di nulla. E' possibile che, come in Inghilterra, la strada passi attraverso la narcotizzazione consumistica: nuovi stadi, con bar e vari "non luoghi" annessi, merchandising, tutti in tribuna con la maglietta e il bicchierozzo di birra, etc. Dopo il folle dramma dell'Heysel non credo infatti alla favoletta della diversa cultura sportiva tra britannici e italici. Semplicemente, lo snodo è stato quello di rendere piacevole andare allo stadio. Pagando, ovviamente.

In Spagna, invece, il gioco è mediamente meno gradevole rispetto all'Inghilterra: più tecnico, forse, ma meno fluido e intenso; soprattutto, ormai squilibratissimo per l'abissale differenza di valori tra le due società maggiori e le altre. Non vince chi fa più punti ma chi ne perde di meno: due li ha lasciati al Valencia (terza "forza" da anni a distanze abissali) il Real, in casa. Il Barcellona, invece, ha dato gas in un solo quarto d'ora, allenandosi con il Real Sociedad. Lo scadimento degli sparring partners è preoccupante, e non è un caso che Sky in Italia non abbia riacquistato i diritti televisivi di un campionato sempre meno divertente.

Come era prevedibile, fatica invece il PSG, per il quale è tornato in auge lo scioglimento dell'acronimo datone da "Libération" fin dai tempi di Wiltord, Cauet e Guivarc'h: PSG = Pas Sûr de Gagner [vedi]. Come direbbe mastro Arrigo, è un insieme di solisti difficile da fare giocare come una squadra. Carletto nostro avrà molti problemi per tentare l'impresa e non è detto che ci riesca. I campioni sono solo due: Ibra e Silva; più un altro che ha tutta l'aria di poterlo diventare come Verratti. Gli altri sono dei mezzisangue sopravvalutati: i vari Pastore, Lavezzi, Lucas, Menez, etc. Nel mazzo ci sono dei buoni giocatori come Sirigu e Motta, ma anche una manica di ronzini a cominciare dalla paurosa linea difensiva. Faticherà in campionato - un torneo di caratura ancora improbabile, dove Ajaccio e Lorient mostrano di essere al livello di compagini di centroclassifica della Championship o della nostra B - dove peseranno soprattutto i gol di Ibra e quelli impediti da Silva. Ma temo che non reggerà il confronto con gli squadroni europei. Non basta collezionare le figurine per costruire una squadra, e Leonardo, aldilà dei petrodollari, non pare ancora maturo nel ruolo di dg vincente. Può sembrare un paradosso, ma è una rosa che - a mio avviso - andrebbe rifondata.

21 agosto 2012, Goodison Park di Liverpool
Marouane Fellaini stampa sul palo il pallone
dopo un'irresistibile serpentina
che ha steso Michael Carrick e impietrito David De Gea
Una partita davvero bella è stata invece quella andata in scena al Goodison Park [tabellino | FM]. A condurla è stato l'Everton per un'ora buona, quando, dopo una messe di occasioni, ha finalmente sbloccato il risultato grazie all'incornata, su angolo, della rivelazione - per il sottoscritto, che non lo aveva mai visto giocare - della serata, Marouane Fellaini-Bakkioui, un belga di non celate origini marocchine, dalla inusuale capigliatura "afro" molto fine Novecento. Lungagnone e potente, mostra belle qualità coi piedi (sfoderate, per esempio, in un assolo con timbro del palo: vedi la prima azione degli HL) e con la testa e gioca semplice, in favore dei compagni di squadra, in una posizione di campo molto fluida, tra il centrocampista avanzato e la seconda punta. Andrà seguito con attenzione perché mostra un'effettiva distinzione. Lo United ha subìto per un'ora senza riuscire a far gioco e non rendendosi mai pericoloso (Kagawa impalpabile). La reazione di un quarto d'ora, nonostante l'inserimento del talentuoso Van Persie, si è spenta in una deludente inconcludenza nei dieci minuti finali. Ci sarà da lavorare anche per il vecchio sir Alex.

Sarà un caso, ma in questa decade ferragostana le squadre di blasone che hanno vinto sono anche quelle che cercano il gioco attraverso la costruzione, il ritmo, la fluidità della circolazione e del possesso della palla: la Juventus di Conte, il City di Mancini, il Barcellona ereditato da Villanova (che ha il merito di porsi nel solco guardioliano). Qualche colpo a vuoto lo hanno dato invece il Chelsea (della cui vittoria in trasferta a Wigan ho visto solo gli HL, ma che ha perso male il Communty Shield), lo United e il Real, che continua a soffrire i limiti tattici del gioco di Mourinho, sostanzialmente "reattivo" come quello di Di Matteo e Ferguson. Tra domani e domenica scenderanno in campo l'Udinese di Guidolin, la Fiorentina di Montella e la Roma di Zeman, per chi ama il bel calcio. Un gettone lo metto anche sulla Benemata di Stramaccioni, ma solo per fedeltà ai colori, perché il progetto mi sembra ancora molto in fieri.

Azor

13 agosto 2012

Buone le prime

Nel week end appena trascorso si sono disputate le prime partite ufficiali delle principali leghe pedatorie europee, vale a dire le supercoppe di varia denominazione. Potremo risparmiarci la malmostosità e la maleducazione di Mourinho ancora per una decina di giorni e poi il quadro sarà completo, ma di isterismo e cattivo gusto hanno subito dato prova giocatori, staff e dirigenti di Napoli e Juventus, come ha già rilevato Mans. Ed espulsioni e scene isteriche si sono viste anche al Villa Park. Non salgo infatti sul carro del tafazzismo stile "Repubblica", che ha subito sparato in prima pagina l'ennesimo commento moralista sui vizi pedatorii italici condito dal sottotesto luogocomunista che gli altri paesi sarebbero "più seri" (una favoletta cui ormai amano credere solo i nesci). Più semplicemente credo che, con l'educazione e la cultura proprie a ciascun interprete (lusitano, partenopeo, manchesteriano, sabaudo, etc.), siamo di fonte alla tassa che dobbiamo pagare a un calcio che muove interessi economici ("particulari et universali", come avrebbe detto Niccolò da Percussina) resi ancora più esasperati dalla crisi finanziaria internazionale. Le cifre restano enormi (benché non quanto quelle che girano intorno ad altri carrozzoni come la Formula 1 o la NBA) ma i margini di profitto si stanno assottigliando anche nel circo Barnum del pallone: inevitabile che le tensioni anziché scemare si riattizzino.

12 agosto 2012, Allianz Arena, Monaco
Mario Mandzukic contende una palla di testa a Neven Subotic.
Il croato ha debuttato nella sua nuova squadra con un gol al 6°
Qui però vorrei parlare di campo, avendo visto due matches su tre. Della Deutscher Fußball Bund Supercup ho guardato infatti solo gli HL [vedi] e letto qualche resoconto [vedi] e dunque non posso dire con competenza. Mi limito pertanto a rilevare il netto predominio del Bayern sul Borussia Dortmund e la firma immediata del nuovo arrivo tra i bavaresi: la nostra vecchia conoscenza Mario "Manzo" Mandzukic, che meritava prosceni più blasonati e che con questo bel debutto promette di non sfigurare.


Ho visto invece la finale italica [scheda] e quella albionica [HL | FM] e ne ho tratto alcune buone sensazioni. Quattro tecnici italiani, due dediti al "gioco giocato", per dirla con Cesare nostro, e due più legati alla tradizione del gioco all'italiana. I primi avevano vinto la lunga marcia dei rispettivi campionati, i secondi le coppe nostrane e, Roberto Di Matteo, la Champions. In gara secca, ed entrambi in rimonta, questa volta hanno prevalso Antonio Conte e Roberto Mancini, anche se hanno certamente pesato le (peraltro ineccepibili) espulsioni che hanno costretto in dieci il Chelsea per 50 minuti e in nove il Napoli per la mezz'ora supplementare.

La qualità del gioco, affidata a campioni di vario calibro, è stata adeguata all'occasione e - val la pena rimarcarlo - il calcio italico non ha sfigurato al confronto, anzi. Le partite sono state entrambe belle: emotivamente più intensa quella di Pechino, agonisticamente più tirata, fino all'ultimo, quella di Birmingham. Merito degli interpreti, dai Cavani e Pandev ai Torres e Lampard (per dir solo dei perdenti), ma anche di chi li ha messi in campo. Una partita non può far testo, ma certo piace rilevare come abbiano prevalso, alla fine, le squadre che hanno cercato costantemente di costruire il gioco.

12 agosto 2012, Villa Park, Birmingham
Carlos Tévez sgancia al 53° la sua bomba destinata all'angolo alto
di sinistra della porta di Petr Čech. E' il gol del sorpasso del City
La Juve ha sofferto a lunghi tratti l'adescamento del Napoli - e memorabili sono gli spazi immensi concessi a Cavani e a Pandev in occasione dei gol -, ma ha sempre tessuto la trama, anche con un Pirlo in giornata non ispiratissima, trovando i gol nei modi più vari: al volo d'esterno su rovesciamento di fronte, liberando le punte, mettendo pressione sui difensori (caduti al rigore e all'autorete). Anche il Manchester ha sofferto le ripartenze (più corali rispetto al Napoli) del Chelsea, ma ha sempre ricucito con pazienza il tessuto del suo gioco che si affida poi alla qualità individuale dei finalizzatori, che siano le bordate da fuori di Touré, le percussioni del Bufalo o i tocchi di fino di Nasri.

Sei gol a Pechino e cinque a Birmingham (e tre a Monaco) rivelano anche una felice tendenza realizzativa, specchio di un gioco meno speculativo rispetto a un passato anche recente. Certo, Walter Mazzarri e Roberto Di Matteo sono culturalmente portati a un gioco di rimessa ("reattivo", direbbe Wilson), che insegue la posizione più che il possesso. Ma entrambi, ovviamente, non rinunciano alla ricerca del gol, anche se Torres non ha la potenza devastante di mettersi sulle spalle la squadra che aveva Drogba e il nuovo arrivato Hazard è apparso ancora spaesato; anche se la volate di Lavezzi restano probabilmente insostituibili e Pandev ha limiti caratteriali (come si è visto) e realizzativi che alla lunga peseranno.

Per concludere, provvisoriamente come è opportuno sulla soglia della stagione: il calcio di élite del continente è partito col piede giusto, proseguendo nella traccia culturale lasciata dal grande Europeo di giugno. Perseguendo il gioco giocato. Speriamo che in corso d'opera lasci un po' indietro anche il calcio sguaiato e isterico.

Azor

12 agosto 2012

Dediche e polemiche

Mazzoleni sventola il secondo rosso della serata
Supercoppa italiana a Pechino: Juventus FC - SSC Napoli. L'unica competizione nazionale di questo tipo che sceglie di spostare di migliaia di chilometri lo scenario della disputa. Partita tesa e avvincente. Sant'Andrea Pirlo da Brescia con una barba da pedatore olandese dei 70s costituisce l'unica rilevante novità. Finiti i novanta minuti, inizia la solita squallida pantomima: polemiche partenopee sull'arbitraggio (tollerante nella prima parte: gli uomini di Mazzarri hanno randellato alquanto e impunemente per un bel po'); dedica juventina al proprio allenatore squalificato per comportamenti chiaramente anti-sportivi. Il calcio italico mostra di funzionare abbastanza bene sul rettangolo verde, per il tempo che un match dura o può durare. Prima e dopo esibisce solo incultura e protervia. La stagione 2012-13 è iniziata così, e difficilmente potrà sterzare nei mesi agonisticamente più caldi.

Mans

11 agosto 2012, National Stadium, Beijing
Juventus FC - SSC Napoli 4:2 d.t.s. (1:2, 2:2)

Bienvenue!

Kopa e Fontaine in una foto recente
Les rouges et blancs, dopo la bellezza di trentaquattro anni, tornano stasera all'Auguste-Delaune per l'apertura casalinga della Ligue 1. Lo Stade de Reims fu squadra dominante, negli anni '50, in Francia e in Europa; vantava due autentici assi - Just Fontaine e Raymond Kopa (il secondo, pallone d'oro nel 1958, giocò anche qualche stagione nel Real, prima di tornare a Reims); tra le sue file, in quegli anni, militava anche Michel Hidalgo, trainer della Francia campione d'Europa nell'84. Il calcio champagne transalpino dell'era Platini si ispirava proprio al cosiddetto jeu à la rémoise di quel favoloso ciclo. E' un ritorno che emoziona, e che si contrappone (appunto: emotivamente) alla prepotenza miliardaria del PSG, nato solo (per la fusione di due club parigini minori) nel 1970 - proprio nell'anno in cui lo Stade era tornato in Ligue 1, dopo alcune stagioni trascorse nella serie inferiore. Immaginiamo che Just e Raymond ("Je suis rémois pour la vie", dichiarò quest'ultimo alcuni anni or sono) siano insieme e vicini questa sera: che il ricordo delle loro imprese possa ispirarne di nuove agli eredi.