27 maggio 2013

La torre di Massimo

L'ultima coppa internazionale vinta dall'Inter
Dunque il soldato Strama non è stato salvato [vedi], ma sacrificato. L'Inter ha ufficializzato in Walter Mazzarri il nuovo tecnico. Si tratta di un buon allenatore, a livello italiano, ma molto lontano dai vertici internazionali. Non a caso De Laurentiis - che nun è fesso - lo ha prontamente sostituito con Rafa Benitez, che è invece un top manager. La nostra VQA parla chiaro [guarda]: tra il livello di Benitez - fascia A1 (allenatori che hanno vinto sia campionati sia coppe internazionali) - e Mazzarri - fascia E (allenatori che hanno vinto solo coppe nazionali) - ci sono almeno palmarés (a scendere) come quelli di un Diego Simeone, di un Roberto Mancini, di un Claudio Ranieri e anche di un Walter Zenga, per stare ai soli nomi nerazzurri.

Questo per dire che, al di là delle apparenze, la scelta di Massimo Moratti è una scelta al ribasso. In uno di quegli articoli che non sono richiamati in prima pagina (per evitare problemi con le società), Luigi Garlando descriveva sulla "Gazzetta" di domenica 26 maggio 2013 (p. 25) molti retroscena della stagione nerazzurra: voci e fatti che evidentemente i giornalisti conoscono, ma si guardano bene dallo scrivere se non a posteriori (per evitare guai con i diretti protagonisti). In breve: Cambiasso si sarebbe schierato contro Stramaccioni dalla 2a di campionato, quando fu tenuto fuori per i ritmi blandi; lo stesso Cuchu, che ha il medesimo stipendio di Sneijder, non viene "sacrificato", e se ne va l'olandese (in una pantomima stucchevole), togliendo altra qualità al gioco della squadra; i vecchi del gruppo avrebbero più volte richiesto di frenare i carichi in allenamento per tutelare i muscoli ormai logori dei senatori, mentre giocatori potenti come Guarin avrebbero avuto bisogno del contrario: da qui il crollo atletico e la filiera interminabile di guai muscolari; le vacanze di Natale infinite richieste (e ottenute) dai boss argentini; Cassano, che sa che Stramaccioni ha in mente una squadra giovane, aggressiva e dinamica, punta al rinnovo e si schiera, insieme col procuratore di entrambi (Bozzo), parlando ogni giorno di Mazzarri nello spogliatoio; finirà a cazzotti con Strama, come è noto; la solitudine di Stramaccioni nei dopo partita davanti alle TV (mai visti Fassone o Branca). E fin qui siamo, tutto sommato, all'ovvio. Se non lo sapevamo lo avevamo immaginato.

La voce peggiore è però un'altra. Stramaccioni avrebbe chiesto a Moratti più giovani e più qualità in squadra, uno staff fidato e dirigenti più presenti e solidi. Prima di Inter-Udinese erano uscite, infatti, sui giornali indicazioni in tal senso: l'idea di un 4-3-3 europeo, con tre soli acquisti di qualità: un terzino destro (al posto di Zanetti), un centrale di mezzo (al posto di Cambiasso) e un'attaccante veloce (al posto di Cassano). Il 2:5 è stata la risposta sul campo, un siluro inequivocabile, della vecchia guardia.

Asado mio
Come si cucina uno spogliatoio
Massimo Moratti ha fatto il gioco della torre e invece che fare piazza pulita (il decalogo di molti interisti, dalla curva [vedi] a chi scrive [vedi], è molto semplice: via Branca e Ausilio, via Cambiasso e Zanetti, con tanta gratitudine, ovviamente) ha scelto la soluzione più pavida. Giù Stramaccioni: "per preservarlo". Immediato striscione di solidarietà al tecnico dei tifosi alla Pinetina. E' tutto molto chiaro agli occhi dei tifosi. Che non sono dei pirla.

Le premesse per un altro biennio di avvitamento, fino a quando non scadranno i mega contratti a Chivu, Samuel, Zanetti, Cambiasso, Stankovic e Milito, ci sono tutte. Nel maggio 2010 i vecchi campioni batterono il Bayern al Bernabeu: in tre anni gli avversari hanno giocato due finali di Champions, alzato la coppa e vinto campionati; Moratti ha invece dilapidato un patrimonio. Per un motivo di fondo: l'Inter non è una società ma una corte rinascimentale. Ma questa è un'altra storia (e ci torneremo sopra).

Azor

20 maggio 2013

Cala il sipario sulla Serie A: brevi annotazioni finali

Non poteva che finire tra le polemiche, il torneo più isterico e culturalmente arretrato d'Europa. Gli ultrà della Fiorentina che attendono a Campo di Marte il pullmann del Milan per sfogare la loro (sportivamente comprensibile) frustrazione sono l'ultima immagine dell'ormai ordinario e quotidiano squallore. Stasera, naturalmente, ci saranno milioni di persone aggrappate ai talk-show delle antenne locali - dove il 'sereno dibattito' è in realtà un poderoso schiamazzo di giornalisti militanti - a gustarsi le velenose code, il chiacchiericcio ex-post fatto di inesauste analisi alla moviola di azioni di gioco contestate. Naturalmente, con dichiarata parzialità, i commentatori ne trarranno conclusioni opposte.


Lasciamo da parte il contesto, e occupiamoci del testo. La classifica finale, le squadre e il gioco, i giocatori. Non c'è dubbio che la Juventus, grazie a una robustezza d'impianto e a un ritmo di gioco mediamente superiori, abbia dominato senza patemi la corsa al titolo (in media inglese avrebbe concluso a +4). Tuttavia, se si escludono Pirlo e Buffon nelle giornate (e serate) di vena, non ha pentavalide (e le due menzionate cominciano a palesare segni di usura agonistica): è la cifra tecnica complessiva a impedirle per ora il salto di qualità in Europa, dove trova XI capaci di muoversi a un ritmo anche superiore ma soprattutto sostenuto da pedatori di classe mediamente più alta. Conte sa benissimo che, con questa rosa, può conservare il primato in Italia per almeno due o tre anni ancora; ambisce però a competere su di un livello più alto, e ciò spiega le incertezze e le voci sulla sua permanenza a Torino. Resta un dato: la Juventus è - attualmente - l'unico club italiano attrezzato per essere ammesso all'élite continentale. A cominciare dallo stadio: non per caso, proprio allo Juventus Stadium è già programmata la finale di Europa League della prossima stagione.

A  notevole distanza dai bianconeri si è piazzato il Napoli (-2 in media inglese col vecchio sistema). Confermandosi, dunque, squadra di vertice. Entro un'organico non eccelso brillano due grandi campioni, che non di rado hanno fatto la differenza: Hamšík e soprattutto Cavani, certamente oggi da ritenere uno dei migliori centravanti del mondo. Squadra a trazione posteriore, il ciuccio si esalta in contropiede, essendo i due testé menzionati immarcabili negli spazi. Il solco nei confronti della Juve si è scavato in coincidenza di un calo di condizione dell'uruguagio, cui il resto della truppa non ha potuto (per limiti intrinseci) supplire.

Edinson Roberto Cavani Gómez,
capocannoniere e migior giocatore del campionato italiano
Non c'è dubbio che, se si bada alla qualità complessiva del calcio esibito, la Fiorentina avrebbe strameritato il terzo posto. Probabilmente l'infortunio di Jovetic le ha fatto perdere i punti decisivi; la bravura di Montella è giustamente sottolineata da tutti, soprattutto perché ha saputo dare un'impronta precisa e un'organizzazione efficace a un XI completamente rifatto. Può essere che, da Giuseppe Rossi, abbia davanti quel poco che le è mancato quest'anno. E quei dieci punti in più che l'anno prossimo potrebbero significare per la Viola una partecipazione protagonistica alla corsa per il titolo (e sempre che qualche pezzo da novanta non faccia le valige).

Il capitolo sul Milan è difficile da affrontare. Nello scorso autunno - in coincidenza con il disastroso avvio di stagione - intervenni più volte a sottolineare l'inadeguatezza di Allegri. Devo - in parte - ricredermi. Solo in parte: perché il 4-3-3 mediante il quale ha trovato la soluzione di quasi tutti i problemi è quanto di più basico si veda oggi tra i club italiani che vanno per la maggiore. La qualità del centrocampo - tolto Montolivo - è misera; il Faraone naturalmente discontinuo. L'arrivo di Balotelli ha dato soprattutto prospettive, a patto di migliorare il tasso tecnico del reparto centrale e individuare un sistema per farlo dialogare con El Shaarawy. Difficile, allo stato, capire quali saranno le mosse della società, compresa la questione della panchina.

Il fallimento di Zeman (ahimé) e il buon campionato (e una buona Europa League) di Vlado Petković alla sua prima esperienza italiana costituiscono - in attesa della finale di Coppa Italia - i soli elementi per valutare l'annata calcistica della capitale. Normale, per ora. Rispettivamente sesta e settima in campionato, Roma e Lazio si scanneranno domenica per la Coppa Italia, e una delle due arricchirà la bacheca e conserverà di questa stagione dolcissimi ricordi e sensazioni. Purtroppo, sarà molto probabilmente una giornata di macelleria anche sotto l'aspetto non propriamente sportivo. Prima di loro si è piazzata la miracolosa Udinese, grazie a un formidabile girone di ritorno e a una striscia finale di otto vittorie. La società meglio organizzata (considerando ambizioni e contesto ambientale) d'Italia si conferma tra le migliori e rimane in Europa. Difficile chiedere di più. Da notare come Guidolin confermi la propria attitudine - e qualcuno dovrebbe prima o poi illustrarne le ragioni, che probabilmente stanno nella peculiarità della preparazione atletica -: le sue squadre vivono momenti irresistibili (a inizio o a fine stagione: sino a qualche tempo fa lo scadimento occorreva in primavera), e momenti di fiacca totale.Sarebbe interessante, dopo tutti questi anni, vederlo sulla panca di una grande.

Infine, per ultima perché penultima nella parte sinistra della classifica, preceduta pure dal Catania e costretta ad affrontare la fase preliminare di Coppa Italia nelle calure agostane, la Benamata. Sedici vittorie, sei pareggi, sedici sconfitte (difficile immaginare un bilancio più bislacco). Girone di ritorno da incubo: 19 punti in 19 giornate, meglio (ma per poco) solo di Atalanta (18) e Palermo (17), alla pari con il Siena. Significa che, al netto del solo Milito (unico infortunio di lungo corso e davvero pesante), con la rosa attuale l'Inter potrebbe al massimo lottare per la salvezza? Ovviamente no. I ronzini non mancano, sia ben chiaro; ma la qualità di alcuni interpreti (Cassano e Palacio su tutti; Guarin a corrente alternata) può essere solo sognata dalle squadre di coda. Il difetto, ovviamente, è tutto nel manico. Nella (e devo anche qui ricredermi) evidente inadeguatezza della guida tecnica, nelle deficienze della conduzione societaria. Stramaccioni non è (non ancora; difficile dire se lo sarà) allenatore da Inter. Anzi, lo è: da Inter virtuale, gestita sul monitor, giocando a Football Manager. Difficile capire, al momento, quale sia l'opinione di Massimo Moratti.

I giocatori. Mi sbilancio e dico che c'è una generazione di pedatori italiani che ci porterà alla finale mondiale nel 2018, in Russia - d'altra parte, ciò sarebbe nella nostra tradizione: una finale ogni dodici anni a partire dal 1970. Attuali under 21 o under 23 che tra un lustro saranno sicuramente (o, perlomeno, molto probabilmente) al top della loro carriera: Balotelli (ça va sans dire), El Shaarawy, De Sciglio, Montolivo (Milan); Verratti (PSG, per ora); Marchisio (Juventus); Ogbonna (Torino); Cerci (Torino), Giuseppe Rossi (Fiorentina), Florenzi (Roma). Centrocampo e attacco promettono d'essere di livello assoluto; restano da scovare un centrale (se Bonucci non diventa davvero affidabile) e un difensore di fascia. Saltasse fuori un altro campione (un Totti, per dire: Insigne? difficile) in questo tempo che manca ...


A proposito di Totti: lui e Di Natale, i vecchietti della serie A, hanno dato spettacolo. A riprova di come il nostro football viva una (tutt'altro che entusiasmante) fase di transizione. Ne abbiamo già vissute, e siamo sempre riemersi. Speriamo.

Mans

19 maggio 2013

Paradossi londinesi

Della bella - ma non bellissima - finale di Europa League va rilevata l'immutata, possente, valenza, ormai cinquantennale, dell'anatema scagliato da Béla Guttmann  - "Nem daqui a 100 anos uma equipa portuguesa será bicampeã europeia e o Benfica sem mim jamais ganhará uma Taça dos Campeões Europeus" - quando, all'indomani della conquista della seconda Coppa dei Campioni (1962), chiese un premio speciale e i dirigenti del Benfica glielo negarono asserendo che il contratto non prevedeva tale clausola. Come ci hanno ricordato gli statistici, le Águias sono già arrivate alla settima finale internazionale persa (dal Milan nella CdC 1963 al Chelsea nell'EL 2013) [vedi]: chi vivrà vedrà lo stato dell'arte nel 2062.

15 maggio 2013, Amsterdam ArenA, Amsterdam
Rafael Benítez Maudes, detto Rafa, alza la sua quinta coppa internazionale
Qui voglio limitarmi più prosaicamente a evidenziare alcuni dati bizzarri che caratterizzano il Chelsea dell'era Abramovič (iniziata esattamente dieci anni: un'altra delle ricorrenze di questo 2013 pallonaro). I Blues seguono davvero delle vie sghembe alle vittorie internazionali. La squadra è approdata infatti alle finali europee solo quando alla sua guida erano allenatori sottostimati dal petropadrone: Avraham Grant arrivò in finale di Champions League nel 2008, perdendola al Luhzniki di Mosca contro il Manchester United ai calci di rigore (a causa della memorabile zolla di Terry); ad alzare la coppa dalle grandi orecchie è stato invece Roberto Di Matteo nel 2012, battendo ai rigori il Bayern; l'altra sera Rafa Benitez ha inanellato l'ennesima perla della sua carriera vincente (e misconosciuta: è già alla quinta coppa internazionale in dieci stagioni, con quattro club diversi), conducendo sagacemente al trofeo vecchi bucanieri e giovani speranze.

Roman Abramovič ha messo a stipendio già dieci allenatori in dieci anni. Solo quattro hanno avuto l'incarico all'inizio di una stagione, quelli cui il magnate russo ha affidato con convinzione la conduzione tecnica, confidando nella loro capacità di vincere: due lo hanno fatto (José Mourinho e Carlo Ancelotti, che hanno entrambi conquistato la Premier League, la FA Cup e la Community Shield), due lo hanno deluso rapidamente e non hanno terminato la prima annata (Luiz Felipe Scolari e André Villas-Boas). A parte Claudio Ranieri, che Abramovič aveva ereditato dalla proprietà precedente, gli altri cinque allenatori hanno ricevuto la guida della squadra a stagione avanzata: Grant all'esonero di Mourinho, Wilkins a quello di Scolari, ma solo come ponte per Guus Hiddink, Di Matteo all'esonero di Villa-Boas, e Benitez all'esonero di Di Matteo. Di questi forse solo Hiddink ha goduto della piena fiducia del padrone (e ha dovuto lasciare la squadra dopo soli quattro mesi perché già contemporaneamente impegnato come CT della Russia): gli altri, compreso Ranieri, no.

21 maggio 2008, Stadio Lužniki, Mosca
L'ultima palla toccata da John George Terry in una finale internazionale
Il paradosso è che sono stati proprio gli allenatori a tempo a vincere le coppe internazionali o a sfiorarle. Quasi una beffa. Mourinho, in tre stagioni, ha collezionato solo tre semifinali di CL (sconfitto due volte da Benitez alla guida del Liverpool, e una da Frank Rijkaard in panca col Barça); Ancelotti nemmeno una. A Hiddink la finale è stata negata dall'Iniestazo [vedi] (e da un arbitraggio, diciamo, infelice). Ci sono arrivati, appunto, solo Grant, Di Matteo e Benitez, poi esonerati o non rinnovati. Diciamo: è la giusta nemesi per un mangiallenatori come il Figlio di Abramo.

Paradosso per paradosso ad alzare le due coppe è stato John Terry, capitano non giocatore in nessuna delle due finali vincenti (per squalifica e per infortunio). Il Chelsea e i suoi prodi attuali non sembrano sedere al cospetto di Eupalla.

Azor
15 maggio 2013, Amsterdam ArenA, Amsterdam
SL Benfica - Chelsea FC 1:2
Tabellino | HL | FM | Foto | Analisi tattica: 01-02

12 maggio 2013

Un fascino antico

Viviamo certamente i "tempi" (congiunturali? duraturi?) dell'Ultracalcio [vedi], ma il gioco continua a mantenere intatto il suo fascino, antico quanto la sua più vecchia competizione esistente, la Football Association Cup. Quella che da cent'anni esatti celebra la sua finale nel Tempio [vedi: 01-02].

Chi ama il calcio per davvero sa che ogni maggio si compie un pellegrinaggio in un sabato pomeriggio di primavera. E' un elemento - questo sì, davvero, di lunga durata - ricorrente come le stagioni. Chi di noi non è più giovane ricorda come negli anni settanta e ottanta del secolo scorso la finale di FA Cup costituisse un appuntamento televisivo irrinunciabile. In un'epoca di rare partite in diretta - confinate nei mercoledì di coppa -, erano le televisioni straniere di lingua italiana (Capodistria, Montecarlo, Svizzera) a trasmettere da Wembley un calcio che affascinava per il suo esotismo, per il suo inverare l'immaginario del Subbuteo in cuoio, sudore e corsa. Insieme con le tappe del giro nei paeselli d'Italia, la telecronaca della finale di FA Cup annunciava la primavera avanzante e gli ultimi giorni di scuola. Così anche ieri ci siamo recati in molti al Tempio. E abbiamo avuto l'ennesimo dono di Eupalla: una partita bellissima e storica la sua parte.

11 maggio 2013, Wembley Stadium, London
Gardenie bianche: Roberto Martinez indica la stella a uno stralunato Dave Whelan
Il fascino dell'ambiente innanzitutto, in cui gli inglesi continuano a essere maestri ineguagliabili: la gardenia sul petto del vecchio presidente del Wigan Athletic, Dave Whelan, che nel maggio del 1960 si ruppe una gamba proprio sul pitch del vecchio Wembley giocando la finale di FA Cup con i Blackburn Rovers (0:3 contro i Wolverhampton Wanderers); i 23.000 tifosi al seguito calati dal sobborgo (81.000 abitanti) di Manchester (è un po' come se altrettanti monzesi scendessero a Roma per sostenere l'AC Monza Brianza 1912 alla prima finale di Coppa Italia); il wheater, tipicamente british (nuvole nell'avvicinamento allo stadio, squarci di sole nel primo tempo, diluvio alla fine della partita e - si noti - nemmeno un ombrello aperto).

La partita è stata bella per l'intensità agonistica e per l'esito inatteso. La corazzata degli sceicchi del Manchester City sembrava avviata a una comoda apoteosi. Mancini, in realtà, aveva avvertito alla vigilia che il Wigan aveva fatto sempre soffrire la sua squadra. E così è stato. Il City ha avuto alcune occasioni nitide, ma i Latics (anagramma storpio per Athletic) hanno tenuto il possesso del gioco per tutta la partita, credendoci fino all'ultimo.

Una finale di FA Cup non è mai pronosticabile, possono davvero vincere gli "underdogs". A conferma del fascino unico di una competizione che ha compiuto ieri 132 anni e ne dimostra sempre venti (senza minacce montaliane: "Esterina, i vent'anni ti minacciano, / grigiorosea nube / che a poco a poco in sé ti chiude"). Vi partecipano davvero tutte le squadre inglesi: l'edizione appena conclusa era cominciata venerdì 10 agosto 2012 con Thrapston Town - Cogenhoe United (2:0, davanti a 125 spettatori), Ascot United - Sandhurst Town (6:1, con "attendance" di 231), Wootton Basset - Calne Town (4:2, 248) e Lye Town - Bartley Green (2:2, 145) [vedi]. Con premi per tutti: il Thrapston Town ha incassato 1.000 sterline, il Wigan 1.800.000, of course [vedi].

Era dal 1988 - da quando sir Alex non aveva ancora vinto nulla con l'altro Manchester - che una squadra approdata per la prima volta alla finale della FA Cup non vinceva: allora fu la "Crazy Gang" del Wimbledon a battere 1:0 il Liverpool [Cineteca]. Ieri il Wigan, che è in procinto di retrocedere dalla Premier alla Championship, ha scritto la sua piccola pagina di storia (evenemenziale).

11 maggio 2013, Wembley Stadium, London
Il gol al 91° porterà per sempre nei tabellini il nome di Ben Watson
(quello di pelo rosso, che incorna su tutti, uccellando Hart)
Il merito è dei ragazzi in campo - mediamente dei ronzini, con qualche onesto pedatore e un puledro talentuoso, Callum McManaman (che alcuni dicono lontano parente di Steve McManaman, che vinse tutto col Real Madrid tra 2000 e 2003) - ma anche di chi ce li ha messi, con ordine e un'idea di gioco: tenere palla, anche con piedi ruvidi, scambiarsela a terra senza lanci lunghi, avviare la manovra dal portiere, rendendola sempre più veloce in fase di avvicinamento alla porta avversaria, più copertura degli spazi che pressing. Roberto Martinez è uno dei giovani allenatori che, insieme a Brendan Rodgers, porta avanti anche nelle isole dei Padri un'idea di "calcio giocato", come direbbe Cesare Prandelli (e per non abusare di un termine consunto come "tiki-taka").

Forse anche per questo Eupalla l'ha baciato sulla fronte, preferendolo al calcio elegante ma farraginoso di Roberto Mancini. Non a caso si parla di lui come erede di Moyes sulla panca dell'Everton. Se coprisse un bel ciclo congiunturale magari sarebbe poi pronto anche per quella dal Manchester United ... Ma ne riparliamo tra 12 anni.

Azor
11 maggio 2013, Wembley Stadium, London
Manchester City FC - Wigan Athletic FC 0:1
Tabellino | HL | FM: 0102 | Foto

10 maggio 2013

La longue durée

Uno dei più grandi storici del secolo scorso, Fernand Braudel, ci ha disvelato come i tempi della storia non siano quelli scanditi dagli orologi, bensì siano tempi multipli, esito di costruzioni sociali [leggi]. Per comprendere perché Chronos non equivalga al tempo sociale, basterà un esempio recente (che si ripete non di rado sui campi calcio): quando la sera del 30 aprile scorso, all'Estadio Santiago Bernabéu, Sergio Ramos ha segnato il secondo gol per il Real Madrid contro il Borussia Dortmund all'88° della semifinale di ritorno della Champions League, i tifosi spagnoli hanno avuto la percezione che i successivi otto minuti (6 sono stati quelli concessi di recupero dall'arbitro) siano passati velocemente; al contrario, per i tifosi tedeschi, allo stadio e a casa, quegli otto minuti sono stati i più lunghi della stagione. Chronos, cioè, non è il Tempo.

La congiuntura (David Moyes) e la lunga durata (Alex Ferguson)
Braudel ha distinto almeno tre ritmi diversi del tempo storico, tra loro intrecciati ma chiaramente distinguibili: quello rapido degli avvenimenti, quello intermedio della congiuntura e quello lento della lunga durata. La nostra vita quotidiana è immersa nel tempo breve, degli avvenimenti, della cronaca, non ha profondità, si esaurisce nell'effimero: è la schiuma della storia, incapace di comprenderla in prospettiva, benché, scrive Braudel, sia il tempo più ricco di umanità, perché è quello che viviamo ogni giorno (a cominciare dalla nascita e dalla morte). Il secondo livello è il ritmo della congiuntura, per lo più quello dei cicli economici, e - di questi "tempi" - non c'è bisogno di spiegare cosa ciò significhi: dura anni, non momenti. Infine, la lunga durata è il tempo quasi immobile, “quasi fuori dal tempo”, dei ritorni insistenti come le stagioni; è quello delle strutture che mutano molto lentamente; secondo Braudel è la scala temporale con un “valore eccezionale” perché mette in evidenza le continuità e le persistenze.

Il lettore che ha avuto la pazienza o la curiosità di arrivare fin qui, si chiederà giustamente: "che ci azzecca?". Quando Alex Chapman Ferguson ha preso la guida del Manchester United nel novembre del 1986, esisteva ancora l'Unione sovietica, al governo nello UK era Margaret Thatcher, Arrigo Sacchi doveva ancora essere ingaggiato dal Milan, e Berlusconi non era ancora "sceso in campo": più semplicemente, alcuni di noi non erano ancora nati. Che tipo di tempo "braudeliano" sono stati dunque i 26 anni di sir Alex alla guida dei Red Devils? Misurati sui 150 anni (netti: 1863-2013) di storia del calcio sono stati un'enormità, più di un sesto (che è come dire, in proporzione, il tempo del Cristianesimo rispetto a quello che ci separa dalla fine dell'era glaciale): qualcosa di difficile da cogliere nel suo insieme se non nel ritmo della "longue durée", appunto. Al suo interno possiamo individuare delle "congiunture": per esempio i cicli vincenti dell'XI di Schmeichel, Neville, Stam, Beckham, Giggs e Solskjær (coronato dalla Champions indimenticabile al Camp Nou nel 1999) o di quello di Van der Sar, Ferdinand, Scholes, Cristiano Ronaldo e Rooney (che vinse a Mosca la CL del 2008). Il tempo breve degli avvenimenti è invece quello, per dire, delle 4 partite di Massimo Taibi con la maglia dello United nella stagione 1999-2000.

L'evenemenziale: Massimo Taibi
Spostiamoci ora dall'isola a un'altra, curiosamente entrambe invase dai normanni: nel 1066 l'Inghilterra, nel 1061 la Sicilia. Qui impera Maurizio Zamparini. Nelle 26 stagioni di Ferguson sulla panchina del Manchester, il nostro "mangia allenatori" (anche lui, se vogliamo, un beefeater [vedi]) ha cambiato solo 44 allenatori. Ha vissuto cioè nel tempo "breve", sbriciolato, del momento. Si è confinato alla cronaca, raramente alla congiuntura (il Venezia in A con Recoba e Vieri o  il Palermo dei fasti di Cavani e Pastore), mai alla storia.

Giustamente il lettore che ha avuto la pazienza o la curiosità di arrivare anche fin qui, si chiederà: "dove si va a parare?" (metafora, si noti). A David Moyes e a José Mourinho, guarda un po'. La durata del contratto che il primo ha firmato ieri con il Manchester United - solo sei anni - è stupefacente per noi che viviamo nella cronaca "zampariniana": solo Ancelotti, a colpi di rinnovi, ha retto la panca dei nostri Diavoli per 8 anni di recente (con doppia coppa, non a caso), mentre gli altri, come Capello e Lippi sono arrivati a fatica a 5 con Roma e Juventus; nell'era pre-Ferguson possiamo vantare il decennio bianconero di Trapattoni. A guardare bene, i 6 anni investiti su Moyes dalla dirigenza mancuniana sono il tempo di una "congiuntura": quello di un ciclo vero per tornare ad alzare vari trofei. E Moyes, come Ferguson, è tipo da tempi lunghi: 12 stagioni consecutive all’Everton FC (e, già prima altre quattro al Preston North End FC), così come sir Alex prima di sbarcare a Manchester si era fatto 8 stagioni consecutive all’Aberdeen FC (e, prima, altre 4 al St. Mirren FC). Veri football manager.

José Mourinho, evenemenziale anche all'Old Trafford
Mourinho, invece, stretto nella sua prospettiva di vita schmittiana fatta di amici vs nemici [vedi], vive di guerre, cioè di battaglie, cioè di eventi. Non solo non è stato reclutato dal Barcellona e dai Manchester per questo motivo [vedi] - non possedendo, cioè, quelle caratteristiche di "great integrity with a strong work ethic", come quelle che Ferguson ha invece riconosciuto pubblicamente al suo successore [leggi] - ma è condannato a vivere anche lui nel tempo breve. Uno dei suoi modelli, Béla Guttmann, ne aveva tratto una teoria - "il terzo anno è fatale" [vedi] - individuando in un biennio, al massimo, il tempo delle vittorie possibili e - pertanto - storicamente effimere.

Sulla panchina più prestigiosa però ha finito col posare le sue posteriorità lo scozzese Moyes e non lo Special One. E questo si spiega anche alla luce dei tempi della storia.

Azor

Letture consigliate:
- sulla lunga durata, F. Braudel, Histoire et Science Sociale: La Longue Durée, "Annales E.S.C.", XIII (1958), pp. 725–753
- sulla congiuntura (i cicli delle scelte tattiche), J. Wilson, Alex Ferguson was as adept at evolving tactically as any manager in history, "The Guardian", 8 May 2013 
- sull'evenemenziale (le previsioni fatue): Only Mourinho has the clout to succeed Ferguson at Man Utd, "The Week", 8 May 2013 

8 maggio 2013

Un grandissimo maestro di calcio

Il fulmine non è giunto a ciel sereno né inaspettato, perché il ritiro di Alex Ferguson era in prospettiva da tempo. Nondimeno è una notizia che turba chi ama il calcio e la sua storia come gli autori e i lettori di Eupallog.

"It is the right time" ha dichiarato sir Alex. Forse è vero, ma è comunque uno shock - non ci giriamo intorno. Il calcio britannico e mondiale perde - per fortuna solo sulla panchina - una delle sue guide più alte, e non sarà più lo stesso.

Il 19 maggio 2013, contro il West Bromwich Albion, a The Hawthorns, Ferguson festeggerà - e noi con lui - 1.500 partite esatte esatte con il ManU. Nell'ultimo quarto di secolo ha dimostrato che si può vincere tutto e in continuazione con squadre e giocatori diversi, anche se indossano tutti la stessa maglia.

Un grandissimo maestro di calcio. Che salutiamo con gratitudine immensa per le emozioni che ci ha regalato.

Sir Alexander Chapman Ferguson

L'annuncio sul sito del Manchester United

5 maggio 2013

"Almost too perfect a metaphor for Italy itself"

"When I fell asleep in my hotel room after midnight, a platinum blonde woman and three ageing male pundits
on state TV were still debating the penalty’s validity" (Simon Kuper) [1]

Fateci caso. Nel calcio italiano manca sempre un rigore a qualcuno. A partita in corso giocatori e allenatori accerchiano e inseguono gli arbitri gridando al torto subito, alla fine si scatenano dirigenti, giornalisti e opinionisti. Le truppe cammellate degli ultras sono sempre in servizio permanente effettivo, e i talk show 24h alimentano la rabbia da bar e da social network.

26 Gennaio 2013, Juventus Stadium, Torino
La composta reazione di Antonio Conte al consueto torto arbitrale
È, il nostro, un calcio di rigore: non dei bilanci, ma di ipnosi collettiva. Vive di riflesso pavloviano: la mia squadra non ha vinto, o ha perso, per colpa dell'arbitro. Non esiste altra analisi possibile: tutte le spiegazioni alternative sono comunque subordinate. La frase principale è sempre la stessa: "diamo fastidio a qualcuno". Perfino chi ha costruito una squadra di superiore qualità tecnica e di maturo impianto tattico come la Juventus non si sottrae al rito: l'immagine dell'imbufalito Conte che punta l'indice sull'arbitro per il solito torto subito è l'emblema del (de)grado cui si è attualmente ridotta la nostra cultura calcistica.

Se non fossimo, per lo più, adusi al provincialismo e al tafazzismo, dovremmo fare lo sforzo di alzare lo sguardo, osservare i giardini degli altri, e considerare quello di casa con sguardo non condizionato. Lo so, è un esercizio difficile, perché mette in gioco le nostre pigre abitudini e sollecita a impegni nuovi, faticosi, che le nostre rendite di posizione, per quanto sempre meno remunerative e sempre più venefiche (per il bene comune, cioè per il nostro avvenire comune), ci inducono a rimandare e a tralasciare come se fossero medicine omeopatiche, utili sì ma di effetto non immediato. Così facendo, però, finiamo con l'accettare con una scrollata di spalle autoindulgente i pregiudizi e gli stereotipi con i quali gli stranieri ci descrivono per il loro tornaconto (economico e politico).

Anche gli osservatori che ci amano non sono teneri, e dicono cose fondate, che dovrebbero essere di stimolo a migliorarci. L'esempio più recente della nostra sordità culturale è stata l'intervista ad Andrea Agnelli raccolta da Simon Kuper - uno dei maggiori intellettuali calcistici viventi (autore di analisi magistrali come Football Against the Enemy, Ajax, The Dutch, the War, per non dire di Soccernomics) - e apparsa sul "Financial Times", dunque una sede per nulla neutrale, il 26 aprile 2013: My Juventus. Has Juve – and the whole Italian game – fallen victim to the nation’s problems itself? Andrea Agnelli, the latest scion of his family to run the legendary football club, offers an answer [leggi].

Il giovane Andrea Agnelli ascolta attento Luciano Moggi e Antonio Giraudo
La stampa italiana ne ha immediatamente rilanciato in lingua italiana alcuni passaggi, ma selettivamente: lasciando indietro le parti più scomode e indigeste, amplificando invece le affermazioni adeguate al nostro discorso pubblico. Basti qualche esempio: "La serie A non è più un punto di arrivo". Il presidente della Juventus punta il dito contro un sistema calcio provinciale e poco competitivo all'estero ("Corriere della sera"); "I nostri modelli sono i club inglesi, tedeschi e spagnoli, dobbiamo prendere il meglio da loro. Ma il calcio italiano, come il paese, ha bisogno di riforme strutturali". E torna a parlare di Calciopoli: "Da lì siamo ripartiti per tornare grandi" ("La Repubblica"); “Questa Juve è la mia creatura. Più che una meta per top player siamo diventati un campionato di transito" ("La Stampa"); "Il nostro movimento ha bisogno di interventi strutturali: la Serie A non è il miglior prodotto d'Europa, siamo un campionato di passaggio. Servono stadi, un Ministero dello Sport e rastrellare più risorse all'estero". E sulla squadra di Conte: "Ha un grande potenziale" ("Gazzetta dello sport"); "La mia Juve preferita? Quella del '96": "Quella squadra vinse la Champions perché gli avversari sentivano di aver perso prima di entrare in campo. Il calcio italiano deve cambiare se vuole tornare appetibile" ("Corriere dello sport"); "Juve, la donna che tutti vorrebbero": "Moggi? Anche gli altri chiamavano i designatori" ("Tuttosport"); "Moggi? Anche gli altri chiamavano gli arbitri". Il presidente: "Siamo la squadra più desiderata" ("TGCOM 24").

Nessuno si è chiesto perché Kuper avesse deciso di andare di persona a Torino, a visitare non solo la città ma le strutture dello Juventus FC, fino al nuovo stadio, in occasione della partita contro il Milan del 21 aprile scorso. Non si tratta della consueta intervista telefonica. Nel caso di Kuper è giornalismo d'antan, fatto in prima persona, de visu, sui luoghi, incontrando le persone. È il mitizzato giornalismo di inchiesta che le testate non praticano più, delegandolo ai giovani free-lance o, come da noi, alle Gabanelli.

Perché dunque Kuper si è scomodato di persona? Per verificare se la sua idea di fondo trovasse corrispondenza nella realtà. Quale idea? Che la decadenza italiana stia scavando anche nel calcio alcune nicchie di qualità, di brand, del made in Italy. Qualcosa che rimane comunque competitivo nel mercato del consumo globale, come Gucci o la Ferrari. E questo qualcosa appare adesso la Juventus. Non più - si badi - il calcio italiano, la Serie A, come era invece solo venti o trent'anni fa, ma solo la Juventus.

Ovviamente si tratta del punto di vista di Kuper. Ma è un punto di vista influente, perché espresso sul "Financial Times", e dunque fatto proprio dall'estabishment economico e politico internazionale. L'articolazione del discorso merita di essere analizzata, perché è quella con cui il calcio italiano - e dunque anche il paese - è ormai rappresentato dall'estero. Rischia cioè di fondare una "narrazione" prevalente, un senso comune, con i quali - ci piaccia o meno - dovremo confrontarci fino a quando non saremo capaci di cambiare e, speriamo, di migliorarci.

Calcio, cappuccino (e Gazzetta)
Simon Kuper ricorda come, nei primi anni 1990s, poco più che ventenne, veniva nel nostro paese per godere del calcio allora d'élite: "The beautiful Italian game of old is disappearing. I wrote in my first book, Football Against the Enemy, 20 years ago: 'When the football fan dies, he goes to Italy, where he finds the best players in the world, matches shown in full on public TV, and numerous daily sports newspapers. Nice weather, too'. For me as for many fans then, Italian football was hopelessly mixed up with memories of frothy cappuccinos, copies of the pink Gazzetta dello Sport studied at café tables, and sun-kissed stadiums as safe as family restaurants at a time when hooligans ravaged English football". (Mi sia consentita - in un inciso - una testimonianza personale: nel 1994 passai l'autunno a Londra, e la televisione inglese [ITV se non ricordo male] trasmetteva ogni domenica in diretta una partita di cartello della Serie A, con tanto di inviati e pre e postpartita. Ebbi modo così di gustarmi, tra le altre, anche un'appassinante Parma-Foggia (2:0, con gol di Dino Baggio e Fernando Couto negli ultimi minuti, il 20 novembre 1994, arbitro Graziano Cesari) della quale venne eletto "man of the match" nientedimeno che Pasquale Padalino. Facevamo tendenza così).

Alla nostalgia del ricordo Kuper oppone la dura realtà del presente: "Italian football isn’t beautiful any more. Italian football – corrupt, beset by violent thugs, economic decline, parochialism and lack of government – offers almost too perfect a metaphor for Italy itself. Like Ferrari (also in the Agnelli stable), or Gucci, or a brilliant corner café, Juventus is aiming for something very difficult: to be a pocket of excellence in a decaying country". Ad Agnelli che si chiede: “Is Italian football interesting to watch today?”, e si risponde: “Half the stadiums are empty, there is violence. I mean, it’s not the best product", Kuper replica "I point out that most of the problems he complains about are problems of Italy – of the country whose economy grew more slowly than that of any country except Haiti and Zimbabwe in the decade to 2010", e osserva come "Agnelli’s father Umberto once said, 'The team has followed the evolution of the nation'. Today, is the nation dragging down the team? “Correct,” Agnelli replies".

Inevitabilmente il discorso di Kuper cade sulla storia recente: "As with many things in Italy, Silvio Berlusconi must take some blame. When he was prime minister, Italy became a country where Berlusconi voters and Berlusconi haters watched Berlusconi’s team Milan thump teams subsidised by Berlusconi’s government on Berlusconi’s pay channels, in a league run by Berlusconi’s right-hand man Adriano Galliani, and then watched the highlights on Berlusconi’s free channel. The only thing Berlusconi didn’t do was carry out his government’s laws for making stadiums safer".

In sostanza, "Juventus has fallen victim to the problems of Italy itself". Kuper ricorda come Calciopoli "was the nadir of Juventus’s history. One image sums up the despair: that summer of 2006, the club executive Gianluca Pessotto sat in an upstairs window clasping a rosary, and let himself fall backwards on to the asphalt below. Thankfully he survived", e come "Juve’s current coach, Antonio Conte, was banned from the dugout for four months last year for having failed to report matchfixing he witnessed while coach of little Siena. Last summer Juve wooed Arsenal’s striker Robin van Persie, but after someone pointed out the sheer extent of Calcioscommesse to his agent, Van Persie joined Manchester United instead". La chiosa è cruda: "This is the context in which Agnelli leads Juve. This is the Italian morass, in which Juventus is trying to thrive".

Juventus ultras proudly display their language skills
Kuper ha apprezzato molto il nuovo stadio della Juventus: "It’s a very 21st-century stadium: there are even two crèches (“baby parks”, in Italian) for spectators’ kids. The 41,000 spectators sit close to the pitch, English-style. Two hours before kick-off I stood by the corner flag and saw how a player here could look straight into individual fans’ faces just yards away, separated from him only by Plexiglas, watching them scrutinise him. In Juve’s changing room I found the hairdryers (essentials of life for Italian footballers) plugged in and ready to go. There were hot and cold baths, four treatment tables, and a dinner table set with a fruit basket where the players would eat straight after the game. This was modernity – a rare commodity in Italian football. In some Italian stadiums you worry about firecrackers falling on your head, but the stands at Juventus felt safe. As Agnelli says, this is the sort of clean environment that encourages people to behave".

Peccato però che "some Juve fans racially abused Milan’s black midfielder Kevin-Prince Boateng. And the game itself plunged you firmly back into today’s impoverished Italy. A decade ago, Juve v Milan was possibly the best game in global football; no longer. Andrea Pirlo, Juve’s last great outfield player, turns 34 on May 19, and their great keeper Gianluigi Buffon is 35. Juve’s passing was awkward and slow. Watching poor Mirko Vucinic labour up front for Juve, you longed for the days when Platini and Zbigniew Boniek graced that space. No wonder almost all the journalists in the press stand were Italians: Juve-Milan has become a provincial affair. Watching this, you understood why Juve recently got thumped in the Champions League by Bayern Munich".

La conclusione di Kuper è preveggente: "If big football clubs really were the globalised behemoths without local souls that their critics see, life would be easy for Juventus. Then the club could forget Italy and play the international market. But even giant football clubs are irredeemably local. Most of their spectators, sponsors, rivals, and a great chunk of their paying TV viewers live inside their own borders. Juventus won’t sink with Italy. But with the country in its current state, not even the Agnelli family club can thrive".

Nessun cenno alle altre squadre italiane. Semplicemente scomparse dai radar. A vagheggiare un top player salvifico. Tra un torto arbitrale e l'altro.

Azor
[1] Peronaggi e interpreti: RAI (la "State TV"), Domenica sportiva (la trasmissione "after midnight"), Paola Ferrari (la "platinum blonde woman"), Marco Civoli, Fulvio Collovati, Gene Gnocchi, Emiliano Mondonico o Ivan Zazzaroni (a scelta, i "three ageing male pundits"). Il rigore in questione è quello concesso dal signor Luca Banti in Juventus-Milan del 21 aprile 2013.

4 maggio 2013

Il Fußball che ci attende

In otto giorni l'universo pedatorio continentale ha dunque virato di 180°. Molte cose sono state dette e scritte. Qui - per non tediare oltre - vorrei soffermarmi solo su tre aspetti forse meno battuti.

In primo luogo, sul cambio della guardia. L'annunciato predominio teutonico porta con sé un problema politico. La leadership economica e politica (fondata su organizzazione e disciplinamento) che la Germania esercita ormai da sola in Europa, a fronte di partner illanguiditi (per motivi e traiettorie diversi) come la Francia, l'Inghilterra e l'Italia, si è finalmente estesa anche all'organizzazione calcistica. Così come stanno crescendo nel resto d'Europa le invidie, i risentimenti e le aperte ostilità nei confronti dei tedeschi (non solo da parte dei greci ma ormai, nelle ultime settimane, anche dei francesi), così temo che si manifesteranno inevitabilmente nei prossimi tempi analoghi sentimenti anche nel mondo del pallone: un capolavoro come Football against the enemy di Simon Kuper [vedi] è un'opera aperta (con pagine memorabili sulla Germania del Novecento), che insegna come la storia faccia il suo corso intrecciando inevitabilmente calcio e potere. La supremazia del Fußball incontrerà probabilmente meno simpatie di quelle di cui hanno goduto, nel tempo, il Football inglese (con i suoi riti e le sue araldiche), il Calcio italiano (con i suoi stereotipi) o il Fútbol iberico (grazie soprattutto alla magnificente "diversità" catalana). Per il momento prevale l'ammirazione: anzi, la cronaca di questi giorni appare una vera e propria acclamazione del potere [rassegna]. Vedremo se saprà tramutarsi anche in simpatia. L'innesto di Guardiola è un segnale positivo. Ma il calcio tedesco non potrà fare valere solo il rigore dei bilanci. Dovrà piacere. Di più: dovrà farsi amare. Un esercizio in cui i tedeschi sono riusciti poche volte da 1.600 anni a questa parte.

1° maggio 2013, Camp Nou, Barcelona
Inolvidables: le fiammate luciferine di Franck Ribéry
Secondo punto: il 7-0 con cui il Bayern ha annichilito il Barcellona. Non potremo non riflettere anche in futuro sulla storicità di queste due memorabili partite. Se l'andata monacense era stata l'Annunciazione, il ritorno del Camp Nou - la Cattedrale di questi anni - è stato la vera e propria Rivelazione. Mai visto il Barcellona così inibito a giocare, così frustrato dall'impotenza a praticare la sua di idea di calcio. E, speculare, la partita perfetta del München, con i quattro attaccanti capaci di colpire magistralmente ma anche di sobbarcarsi un compito individuale, ma al contempo collettivo, di difesa altissima, che cominciava sul limes dell'area avversaria (e guardando l'opus di Mandžukić ben si comprende cosa Guardiola avrebbe voluto da Ibrahimović, che ha più fisico e più tecnica del croato). Al punto che a impostare l'azione erano spesso i loro difensori, come nell'apertura maestosa (alla Pirlo, si parva licet) di Alaba in occasione del primo gol. Per non dire del pressing coordinato con cui i bavaresi hanno strappato innumerevoli volte sul nascere la tessitura catalana (e in due o tre flash ho rivisto la marea Orangie annata 1974). La sostituzione in corso d'opera di Xavi e Iniesta è stato il simbolo della resa di un'era. Certo, mancavano Messi, Puyol, Mascherano e Busquets. Certo, la squadra è in evidente stallo atletico. Ma il Bayern avrebbe probabilmente vinto comunque, tanto è attualmente perfetto, apicale, il suo meccanismo di gioco. Che è totale nella dedizione michelsiana e sacchiana al collettivo da parte anche dei giocatori più talentuosi e discontinui come Arien Robben. Guardare Franck Ribéry puntare dritto alla linea di fondo trascinandosi dietro gli arrancanti blaugrana, alzare lo sguardo, e pennellare cross così essenziali e mirati continua davvero a fare del calcio il gioco più bello del mondo. Qualcosa di indimenticabile, nell'ultimo hurrah di Jupp Heynckes.

30 aprile 2013, Estadio Santiago Bernabéu, Madrid
Quando i dettagli scrivono la storia:
Roman Weidenfeller respinge di petto la sassata di CR7
Infine: il personaggio. Anche qui si è probabilmente prodotto un cambio della guardia. Il fallimento in terra di Spagna di José Mourinho sta tutto nell'immagine colta con la consueta finezza da Luigi Garlando: l'altra sera, al Bernabeu, contro il Borussia, "Mou è rimasto quasi sempre ad osservare con le mani nelle tasche del giaccone di stoffa, come un pensionato che guarda i treni da un cavalcavia" [leggi]. Se sarà ritorno al Chelsea, sarà per lui come imboccare il vialetto di casa: il ritorno dell'eroe, quello che invocava il rumore dei nemici e che ora si lamenta dell'odio altrui, al tepore domestico. Che l'ambiente inglese abbia fatto filtrare subito la voce che a Manchester si pensi non più a lui ma a Jürgen Klopp come successore di sir Alex Ferguson alla guida dello United [rumours] induce a riflessioni sulla caducità del potere e sulla grande ruota che innalza ma anche discende le fortune degli umani, anche dei sedicenti "speciali". Che sia fondata o meno, la voce evidenzia i giorni della grazia che avvolgono il giovane Jürgen, i cui meriti architettonici sono sotto gli occhi e le analisi di tutti. Tanto José è grandissimo nella detestabilità tanto "Kloppo" è prorompente nella simpatia che emana e suscita. Sempre col sorriso pronto ad aprirsi sul volto anche quando ruggisce a bordo campo. Soprattutto sono la passione che trasuda per il calcio, il rispetto per la sua storia e per gli avversari, che ce lo fanno amare come uno dei figli prediletti di Eupalla. Un dono divino, l'ennesimo, di questa epopea senza fine.

Azor
30 aprile 2013, Estadio Santiago Bernabéu, Madrid
Real Madrid CF - Borussia Dortmund 2:0
Commenti: Beccantini

1° maggio 2013, Camp Nou, Barcellona
FC Barcelona - FC Bayern München 0:3
Commenti: Wilson | Rassegna stampa: spagnola - tedesca

2 maggio 2013

L'invasione dell'Inghilterra



Il 25 maggio, dunque, i tedeschi potranno coronare un loro antico - e per fortuna mai realizzato - sogno: invadere l'Inghilterra. Sarà un'invasione festosa, e le uniche lacrime verranno versate dai followers della squadra che tornerà in patria senza poter sbucare dal portellone dell'aereo esibendo la coppa.

Per la quarta volta, il più ambito trofeo continentale sarà conteso da due XI dello stesso paese. In effetti, dei tradizionali quattro grandi campionati nazionali, finora solo la Bundesliga aveva mancato l'en-plein. L'evento, peraltro, non è nemmeno statisticamente eccezionale: si registra quest'anno (appunto) per la quarta volta nelle ultime quattordici edizioni della CL - come dire, almeno in una occasione su tre o su quattro. Ricordiamo i precedenti: Real Madrid-Valencia nel 2000, Milan-Juventus nel 2003, Manchester United-Chelsea nel 2008. Valencia e Chelsea erano giunte per la prima volta all'atto finale. Milan-Juventus, e ora Bayern-Borussia Dortmund sono due 'classiche'. Sfide tra club già entrati nell'albo d'oro. La storia dice che, finora, per la squadra di minor blasone e tradizione europea non c'è mai stato scampo: le finali premiarono nell'ordine Real Madrid, Milan e Manchester United - aristocrazia assoluta del continente, club che già avevano trionfato in edizioni della competizione in diverse epoche della sua e della loro storia.

Il volto della sconfitta
Con questo, e non solo per questo, il pronostico - oltre che la logica - pende tutto dalla parte del Bayern, che a Wembley giocherà la decima finale (sinora quattro vinte e cinque perse). La facilità irrisoria con cui ha spazzato via un quinquennio di dominio barcellonista è già di diritto entrata nella storia del football, benché  qualche attenuante ai catalani vada pur riconosciuta - mi riferisco naturalmente all'indisponibilità di Messi, che ne ha reso del tutto sterile, lenta e prevedibile la manovra offensiva. Nessuna attenuante, invece, per il Real Madrid. Sui giornali di ieri si leggeva di "impresa sfiorata" dai Blancos: sarebbe loro bastato un solo gol, un terzo gol, per andare a Wembley. Onestamente, se il Dortmund verso il quarto d'ora del secondo tempo non avesse cessato di ripartire a duecento all'ora, appagato come pareva dalla propria superiorità e stupefatto dalla (non inedita) propensione all'indicibile spreco, anche quel match poteva prendere la piega che ha preso poi quello giocato a Camp Nou. Si avvertiva netta la sensazione che, ne avesse avuto bisogno, la banda di Klopp avrebbe raso al suolo un'altra volta lo sgangherato XI di Mourinho. La superiore qualità di gioco e di organizzazione era imbarazzante. Nonostante lo score finale dica di un apparente equilibrio, non ho dubbi nel ritenere sia il Real a uscire di scena nella maniera più umiliante. Se non altro perché Cristiano ha giocato al Bernabéu, ed è stato - come sempre gli succede nelle serate che fanno la storia - impalpabile. Un campione celebrato ben oltre i suoi reali meriti, ben oltre le sue reali capacità. Il Real conclude dunque il ciclo mourinhano senza una sola finale di CL; si terrà una Liga su tre; alzerà forse la seconda Copa del Rey. Un triennio chiaramente fallimentare: il triennio della collezione di figurine e di figuracce. Con Carletto, se davvero accetterà di sedersi sulla panchina più difficile del mondo, almeno tornerà ad essere qualcosa di più somigliante a una squadra di calcio: c'è da scommetterci.

Il Barça invece arriva all'epilogo di un glorioso e spettacolare ciclo; quella vista ieri sera era una macchina senza più benzina, idee, fiducia in se stessa. Ha trovato un avversario in grado di imporgli il proprio gioco, di avvelenarlo del veleno con il quale normalmente paralizzava ogni rivale: non era mai accaduto. Il mutamento di scenario che preventivavo alcuni mesi fa [vedi] sembra dunque già avvenuto. Quando, alla metà del secondo tempo, il palcoscenico è abbandonato anche da Xavi e da Iniesta, si è materializzata la resa: una resa definitiva e simbolica. Da dove ripartiranno a Barcellona? E' questo uno dei temi più interessanti all'ordine del giorno della prossima stagione.

Wembley negli occhi di Heynckes
Per ora, limitiamoci a pregustare la finale. Dopodomani Borussia e Bayern ci offrono l'antipasto, in un match 'inutile' di Bundesliga. Allo stato, sembrano entrambe al top della condizione atletica. I bavaresi appaiono più concreti, smaliziati e compatti; i gialloneri più arrembanti, capaci di accelerazioni mostruose ma da esiti troppo spesso imprecisi. I primi sanno capitalizzare, gli altri entusiasmano e scialacquano. Può cambiare qualcosa in tre settimane? Può, una delle due - o entrambe - scadere di forma? Un anno fa, nella finale di Coppa di Germania, il Dortmund vinse 5-2. Quest'anno, in Bundesliga e a Monaco, è finita pari. Precedenti che dicono poco, ma se non altro escludono che a Dortmund soffrano complessi di inferiorità. Vedremo. Il vecchio Jupp è vicino a compiere il suo capolavoro; aveva già vinto la coppa sulla panca del Real, senza però entusiasmare. Il giovane Klopp lascerebbe un segno profondissimo, perché ha organizzato tutta la stagione avendo in mente solo questo obiettivo: arrivare a Wembley. Essendo il calcio un mistero agonistico, preferisco rinunciare sin da ora a ogni previsione. Anzi, non ci rinuncio. Due a due nei 90', tre a tre dopo i supplementari. Poi, nell'ottica del risarcimento, Eupalla sceglierà il Bayern.

Mans