4 maggio 2013

Il Fußball che ci attende

In otto giorni l'universo pedatorio continentale ha dunque virato di 180°. Molte cose sono state dette e scritte. Qui - per non tediare oltre - vorrei soffermarmi solo su tre aspetti forse meno battuti.

In primo luogo, sul cambio della guardia. L'annunciato predominio teutonico porta con sé un problema politico. La leadership economica e politica (fondata su organizzazione e disciplinamento) che la Germania esercita ormai da sola in Europa, a fronte di partner illanguiditi (per motivi e traiettorie diversi) come la Francia, l'Inghilterra e l'Italia, si è finalmente estesa anche all'organizzazione calcistica. Così come stanno crescendo nel resto d'Europa le invidie, i risentimenti e le aperte ostilità nei confronti dei tedeschi (non solo da parte dei greci ma ormai, nelle ultime settimane, anche dei francesi), così temo che si manifesteranno inevitabilmente nei prossimi tempi analoghi sentimenti anche nel mondo del pallone: un capolavoro come Football against the enemy di Simon Kuper [vedi] è un'opera aperta (con pagine memorabili sulla Germania del Novecento), che insegna come la storia faccia il suo corso intrecciando inevitabilmente calcio e potere. La supremazia del Fußball incontrerà probabilmente meno simpatie di quelle di cui hanno goduto, nel tempo, il Football inglese (con i suoi riti e le sue araldiche), il Calcio italiano (con i suoi stereotipi) o il Fútbol iberico (grazie soprattutto alla magnificente "diversità" catalana). Per il momento prevale l'ammirazione: anzi, la cronaca di questi giorni appare una vera e propria acclamazione del potere [rassegna]. Vedremo se saprà tramutarsi anche in simpatia. L'innesto di Guardiola è un segnale positivo. Ma il calcio tedesco non potrà fare valere solo il rigore dei bilanci. Dovrà piacere. Di più: dovrà farsi amare. Un esercizio in cui i tedeschi sono riusciti poche volte da 1.600 anni a questa parte.

1° maggio 2013, Camp Nou, Barcelona
Inolvidables: le fiammate luciferine di Franck Ribéry
Secondo punto: il 7-0 con cui il Bayern ha annichilito il Barcellona. Non potremo non riflettere anche in futuro sulla storicità di queste due memorabili partite. Se l'andata monacense era stata l'Annunciazione, il ritorno del Camp Nou - la Cattedrale di questi anni - è stato la vera e propria Rivelazione. Mai visto il Barcellona così inibito a giocare, così frustrato dall'impotenza a praticare la sua di idea di calcio. E, speculare, la partita perfetta del München, con i quattro attaccanti capaci di colpire magistralmente ma anche di sobbarcarsi un compito individuale, ma al contempo collettivo, di difesa altissima, che cominciava sul limes dell'area avversaria (e guardando l'opus di Mandžukić ben si comprende cosa Guardiola avrebbe voluto da Ibrahimović, che ha più fisico e più tecnica del croato). Al punto che a impostare l'azione erano spesso i loro difensori, come nell'apertura maestosa (alla Pirlo, si parva licet) di Alaba in occasione del primo gol. Per non dire del pressing coordinato con cui i bavaresi hanno strappato innumerevoli volte sul nascere la tessitura catalana (e in due o tre flash ho rivisto la marea Orangie annata 1974). La sostituzione in corso d'opera di Xavi e Iniesta è stato il simbolo della resa di un'era. Certo, mancavano Messi, Puyol, Mascherano e Busquets. Certo, la squadra è in evidente stallo atletico. Ma il Bayern avrebbe probabilmente vinto comunque, tanto è attualmente perfetto, apicale, il suo meccanismo di gioco. Che è totale nella dedizione michelsiana e sacchiana al collettivo da parte anche dei giocatori più talentuosi e discontinui come Arien Robben. Guardare Franck Ribéry puntare dritto alla linea di fondo trascinandosi dietro gli arrancanti blaugrana, alzare lo sguardo, e pennellare cross così essenziali e mirati continua davvero a fare del calcio il gioco più bello del mondo. Qualcosa di indimenticabile, nell'ultimo hurrah di Jupp Heynckes.

30 aprile 2013, Estadio Santiago Bernabéu, Madrid
Quando i dettagli scrivono la storia:
Roman Weidenfeller respinge di petto la sassata di CR7
Infine: il personaggio. Anche qui si è probabilmente prodotto un cambio della guardia. Il fallimento in terra di Spagna di José Mourinho sta tutto nell'immagine colta con la consueta finezza da Luigi Garlando: l'altra sera, al Bernabeu, contro il Borussia, "Mou è rimasto quasi sempre ad osservare con le mani nelle tasche del giaccone di stoffa, come un pensionato che guarda i treni da un cavalcavia" [leggi]. Se sarà ritorno al Chelsea, sarà per lui come imboccare il vialetto di casa: il ritorno dell'eroe, quello che invocava il rumore dei nemici e che ora si lamenta dell'odio altrui, al tepore domestico. Che l'ambiente inglese abbia fatto filtrare subito la voce che a Manchester si pensi non più a lui ma a Jürgen Klopp come successore di sir Alex Ferguson alla guida dello United [rumours] induce a riflessioni sulla caducità del potere e sulla grande ruota che innalza ma anche discende le fortune degli umani, anche dei sedicenti "speciali". Che sia fondata o meno, la voce evidenzia i giorni della grazia che avvolgono il giovane Jürgen, i cui meriti architettonici sono sotto gli occhi e le analisi di tutti. Tanto José è grandissimo nella detestabilità tanto "Kloppo" è prorompente nella simpatia che emana e suscita. Sempre col sorriso pronto ad aprirsi sul volto anche quando ruggisce a bordo campo. Soprattutto sono la passione che trasuda per il calcio, il rispetto per la sua storia e per gli avversari, che ce lo fanno amare come uno dei figli prediletti di Eupalla. Un dono divino, l'ennesimo, di questa epopea senza fine.

Azor
30 aprile 2013, Estadio Santiago Bernabéu, Madrid
Real Madrid CF - Borussia Dortmund 2:0
Commenti: Beccantini

1° maggio 2013, Camp Nou, Barcellona
FC Barcelona - FC Bayern München 0:3
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