27 giugno 2014

Le radici di un disastro (in parte annunciato)

Ci sono voluti alcuni giorni per ruminare il boccone amaro prodotto dal tracollo sportivo che si  è consumato a Natal il 24 scorso. È solo apparentemente facile analizzare una partita come quella e bisogna guardare ben oltre l'atto finale di un disastro che nasce altrove. Nasce più lontano da Natal, dal Brasile, dal Mondiale dei Mondiali.

All'indomani della sconfitta tutti o quasi hanno rovesciato sul CT responsabilità e acredine giornalistica. L'unica eccezione che ricordi è l'articolo sulla Rosea di Righetto Sacchi il quale, con la solita umiltà, ha individuato altrove le responsabilità della nostra figuraccia in mondovisione. Prandelli non è il responsabile principale della Caporetto sportiva a cui abbiamo assistito, ma certamente ha delle colpe. Tanto vale dunque analizzarle subito e pulire il campo da possibili fraintendimenti. Il Cesarone nazionale, come già scritto altrove, non ha mai avuto troppo coraggio. Ha un palmarès anemico e oggi nel calcio il selezionatore deve essere prima di tutto un bravo motivatore con l'alone del vincente, altrimenti ci sarà sempre un Balotelli che si mette le ridicole cuffione alle orecchie mentre il tecnico parla alla squadra.

24 giugno 2014, Estadio das Dunas, Natal
Prandelli dà l'addio alla Nazionale
Il giorno prima della partita, in conferenza stampa, Cesare ha affermato che quella contro la Celeste sarebbe stata la partita più importante della sua carriera. Si pensa se si pensa, ma non si dice. Ha parlato di patriottismo e di sentimento nazionalistico. Si pensa se si pensa, ma non si dice. Il calcio è uno sport dove conta vincere e per vincere si deve avere l'approccio corretto. Di un gioco si tratta e bisogna giocare, con l'entusiasmo e la gioia che pertengono al gioco, non con la tensione che è si propria di questi appuntamenti, ma che l'allenatore deve stemperare, non alimentare. Altrimenti è un disastro. Il patriottismo è anche un valore positivo, ma deve essere intimo, condiviso dal gruppo e non sbattuto in faccia a cento giornalisti, perché se ne parli in conferenza stampa è evidente che non ce l'hai e soprattutto sai che non ce l'hanno i giocatori.

Mi ha poi stupito e a tratti costernato l'impreparazione della squadra: siamo stati sempre lenti, mai rapidi nel far ripartire l'azione; in altre parole: passivi. Sembrava soffrissimo più degli altri il clima infame del nord-est brasileiro. Perché? Qualcuno dovrà rispondere a questa domanda. Non è corretto parlare solo di errori tattici. Correvamo la metà degli altri e non sono serviti a nulla i marchingegni tecnologici di cui la Nazionale si era dotata per far fronte all'asprezza della competizione.

Tatticamente abbiamo offerto uno spettacolo indecente: il Mondiale è l'atto finale di un percorso lungo e complesso, non una tournée nell'angolo più remoto del pianeta pagata dallo sponsor. Ci si deve arrivare con le idee chiare. Da quando siamo atterrati in Brasile abbiamo assistito al festival dell'improvvisazione. L'infortunio di Montolivo sembrava aver gettato il CT nel panico. Prandelli ha fatto mille esperimenti tattici senza mai trovare il bandolo della matassa; e parliamo di Montolivo, mica del Xavi di cinque anni fa. Perché questa confusione? Perché improvvisare proprio durante la competizione più importante e più dura del pianeta calcio? Prandelli è tutto fuorché uno sprovveduto. Era evidente che Balotelli non potesse continuare dopo la stupida ammonizione rimediata nel primo tempo, ma perché sostituirlo con Parolo?

Cesare ha preso la Nazionale, o meglio le sue macerie, nel 2010 e l'ha portata alla finale dell'Europeo 2012 e a una ConfCup più che dignitosa. Gli va riconosciuto perché è un bravo allenatore e tutti i rilievi fatti sopra, doverosi dopo la seconda eliminazione consecutiva al primo turno, non cancellano le sue qualità tecniche e umane. Lo ha dimostrato dimettendosi il giorno stesso dell'eliminazione. Ma non basta. È un'altra l'assunzione di responsabilità che dovrebbe prendersi: spiegare con chiarezza cosa è successo davvero dal giorno dopo la finale di Euro 2012 alla spedizione brasiliana altrimenti si ripete lo stucchevole teatrino post-lippiano del 2010. Il tecnico che va in televisione e si assume tutte le responsabilità dell'ignobile eliminazione. Stop. Fine del discorso e dopo quattro anni siamo alle solite.

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24 giugno 2014, Estadio das Dunas, Natal
La squadra azzurra prima dell'umiliazione colorata di Celeste
Comunque le responsabilità del commissario tecnico non possono nascondere il punto vero della questione, che con quanto scritto sopra non c'entrano nulla. Il punto vero è lo stato del calcio italiano. A Natal è stato umiliato un intero movimento incapace ormai di generare sport. Abbiamo una Federazione inesistente, composta da uomini selezionati in base a criteri che nessuno conosce; incapace di gestire l'enorme indotto economico generato dai diritti televisivi e debole dinanzi allo strapotere delle società che dettano tempi e modi alla Nazionale. Bene le dimissioni di Abete, ma sempre troppo tardi. Le società stesse da anni investono sui giocatori, spesso prendendo abbagli colossali. I direttori sportivi vanno a braccetto con cinque, massimo dieci procuratori (veri talent-scout dell'orrendo mondo pallonaio moderno) e non viaggiano più per osservare. Si fidano di emissari dalla dubbia preparazione tecnica e subiscono regolarmente i ricatti di mezze calzette convinti di essere diventati Maradona solo perché hanno una mezza offerta dal Qatar.

Buffon a caldo, come sempre molto sincero, ha detto che esiste un gap generazionale per cui i veterani vanno in campo e fanno sempre il loro dovere; i potenziali fuoriclasse no. Il riferimento a Balotelli è parso evidente. Ma Balotelli è la sintesi dello stato in cui il calcio versa nel nostro Paese. Un talento indiscutibile che in Italia incide sul campionato e porta tanti punti alla sua squadra, ma fuori dai confini nazionali stecca regolarmente. C'è da chiedersi se sia davvero un fuoriclasse completo, ma più di questo c'è da chiedersi perché un calciatore che in Italia porta una squadra dal dodicesimo al quarto posto in mezza stagione va in Europa e nel mondo per girellare svagato in campo senza toccare palla per ottanta minuti. Evidentemente il nostro campionato è ormai la periferia del pianeta calcio.

I giovani che il nostro movimento produce e porta al professionismo sono modesti rispetto ai loro coetanei spagnoli, inglesi, tedeschi, belgi e olandesi e questo è un problema che affonda le proprie radici nell'umo dello sport più seguito dagli italiani. Le scuole calcio un tempo erano la strada e le piazze. Oggi che le strade sono monopolio delle macchine e le piazze dei turisti chi insegna ai ragazzi come si gioca al calcio? Chi gestisce le squadre dilettantistiche? Quanto fa la scuola per lo sport? Se non si riparte da questo, dalla didattica e dalla pedagogia, non si va da nessuna parte.

Dicevamo degli stadi: vecchi, scomodi, quindi vuoti, quindi sempre più nelle mani del tifo organizzato, vero e proprio cancro del calcio nazionale. L'unica società italiana che ha rifatto lo stadio vince il campionato da tre anni e comunque, al confronto con uno qualsiasi degli stadi inglesi o tedeschi, lo Juventus Stadium sembra già vecchio. I governi cambiano con una rapidità sconcertante e pare impossibile dare continuità a un qualsiasi progetto di legge che apra finalmente alla costruzione di impianti piacevoli, attrezzati e vivaddio coperti. Ci vorrebbe poco a imporre, in tempi ragionevoli, la costruzione dello stadio di proprietà a tutti, pena la non iscrizione al campionato. Sarebbe un passo avanti decisivo e un colpo durissimo al tifo organizzato. Contemporaneamente si dovrebbero abbattere tutte le barriere e responsabilizzare i tifosi tutti. A Firenze lo hanno fatto nel parterre di tribuna, settore alquanto costoso; era pieno anche durante Fiorentina-Sassuolo.

Un movimento sportivo è come un organismo complesso: se si ammala anche solo una cellula, le conseguenze possono essere letali. "Lo stato si indigna, si impegna, poi getta la spugna con gran dignità" cantava De Andrè. In Italia siamo sempre al capezzale del malato, con la spugna in mano. Stavolta piangiamo per Ciro Esposito, ennesima vittima di una follia collettiva che nessuno vuole davvero fermare e alla quale i giornali nazionali hanno dedicato titoli giganteschi per il tempo di un caffè, poi di nuovo sulla giostra a disquisire delle cuffie di Balotelli e dell'amore sbocciato fra Buffon e Ilaria D'amico. La morte di un giovane uomo merita ben altra attenzione e la capacità di indignarsi, provare un profondo senso di vergogna e poi ripartire determinati per cambiare davvero le cose.

Il nostro calcio da anni vegeta in nome delle magnifiche sorti e progressive garantite dai milioni di euro sborsati dalle pay-tv. Presidenti finanzieri che comprano dieci giocatori nuovi ogni anno per poi rivenderne tredici l'anno dopo senza che uno solo sia anche solo lontanamente definibile un onesto ronzino.

Poche chiacchiere ora. Tocca alle istituzioni sportive e non solo fare una scelta drastica: staccare la spina o provare a salvare il gioco del calcio. Ci vorrà tempo, ma forse, fra qualche anno, potremo affrontare Costa Rica e Uruguay consci della nostra tradizione calcistica e non andare in campo per una qualificazione a costo zero.

Cibali