16 aprile 2017

Lettera a mio figlio sul milanismo immateriale

Caro Pepe,
da giovedì 13 aprile Silvio Berlusconi, come sappiamo, non è più presidente del Milan. Per te è stato il Presidente: non ne hai conosciuti altri. Per me, è arrivato, come l'Angelo Sterminatore in elicottero e con un videoclip con le braccia conserte, dopo Felicino Riva (eh sì, quello scappato coi soldi a Beirut), Sordillo, Carraro padre e figlio, Albino Buticchi, Bruno Pardi, Vittorio Duina, Felice Colombo, Gaetano Morazzoni, Giussy Farina e, per pochi giorni, Rosario Lo Verde.

Da mesi, da anni lo sapevano che sarebbe arrivato il momento. Lo abbiamo atteso con animo alterno, ora desiderosi di mettere la parola fine a questo “penoso romanzo di fabbrica” - come si canta nel Musical - che da troppi anni ci ha funestato il presente e guastato anche un po' i ricordi, ora dubbiosi e pure un po' sgomenti per il futuro prossimo nelle mani del sciur Li e dell'acquisto in comode rate, dei soldi imprestati, ma soprattutto dall'assai probabile ignoranza in materia del nuovo padrone. 

Intendo l'ignoranza dell'essenza immateriale del milanismo, che appartiene pure, facendo le debite proporzioni, a qualsiasi squadra di calcio che abbia una storia, corta o lunga, illustre o scalcagnata. E che soprattutto non è, e credo non sarà mai, quantificabile in soldi, o azioni, o debiti. Quindi, di fatto, non attribuibile a una proprietà privata, che si sia essa incarnata in un Unto del Signore, in un broker in forma di springroll o in un fondo finanziario d'oltreoceano.

Che cosa sia il milanismo immateriale non è così semplice da dire o da spiegare. Faccio fatica a dargli una faccia, un'idea, un'argomentazione logica. Però in questi giorni mi sono successe cose che forse aiutano un po' a capire. Volevo allora provare a scrivertele.

Il "Cina"
Venerdì, qualche ora prima dell'assemblea dei soci che avrebbe sancito formalmente il passaggio di proprietà, sono andato a casa del Sanfi, a mangiare. Col Sanfi ci si sente più o meno regolarmente dopo le partite. Si analizza, si commenta, si vaticina. Si fanno formazioni, si pianifica la campagna acquisti. Facciamo anche scouting, sai? Lui mi ha parlato di Julian Weigl. Io di Casper Dolberg. Ci piacciono quei giocatori lì: alati, che corrono senza guardare il pallone tra i piedi, testa alta. A proposito della cinesizzazione in corso ci abbiamo riso un po' su. Io gli ho raccontato che avrei scritto un pezzo sul primo cinese di successo in casa rossonera: Luigi Bonizzoni, detto “Cina” - da Gioann Brera, suo compagno nei Boys del Milan a inizio anni Trenta – per via del taglio cinese degli occhi, vinse da allenatore lo scudetto 1958-59 con gente come Buffon (Lorenzo, eh...) e Liedholm, Cesare Maldini e Schiaffino, Altafini e Pantera Danova. Abbiamo deciso che avremmo cantato insieme “Sunt el Biscela del Porta Cines, cun la camisa culur di scires...”. Ma poi ci siamo dimenticati, causa bonarda.

Ganz!
Faccio però un passo indietro. Guidando verso casa del Sanfi, alla fine di via dei Missaglia, superato il Fiordaliso, ho girato a sinistra verso Fizzonasco. Fermo a un semaforo mi sono ricordato, improvvisamente, come un lampo, che in quel preciso posto, anche se nella direzione opposta, avevo ascoltato alla radio, in macchina, il gol di Maurizio Ganz di un 3 a 2 contro la Sampdoria. Era il 1999, l'anno dello scudetto in rimonta di Zaccheroni, una delle ultime giornate. La Lazio di Eriksson e Nesta, Mancini e Mihajlovic, prima in classifica da parecchie giornate, aveva però dilapidato quasi tutto il suo vantaggio e il Milan si era fatto sotto. Era un Milan reduce da due campionati mediocri e con una rosa che affiancava campioni onusti di gloria ma in parabola discendente – Albertini, Boban, Costacurta, Weah, Leonardo – a onesti pedatori – Bierhoff, Helveg, portati in dote da Zaccheroni dall'Udinese – e carneadi di obliabile memoria: Guglieminpietro e Ziege, N'Gotty e Sala, Ba e Ayala. Quella domenica – sono andato poi a controllare: era il 2 maggio – la Lazio vinceva largo a Udine e il Milan stentava in casa con una sorprendentemente coriacea Sampdoria. Al 90° era un deludentissimo 2-2 – uno dei due gol lo aveva segnato proprio Montella, guarda un po' - che avrebbe significato rinunciare a ogni sogno di rimonta. Ma su un'azione di calcio d'angolo, nei tempi di recupero, Maurizio Ganz, che in quella stagione fece gol decisivi, spesso entrando dalla panchina, mise dentro il gol della vittoria. Fu fortunoso – ci fu una deviazione, decisiva, di difensore – ma determinante. Il Milan vinse e rimase incollato a meno un punto dalla Lazio, che alla penultima giornata pareggiò a Firenze e si fece sorpassare dal Milan. L'ultima giornata bastò vincere a Perugia, anche grazie a una super parata di Christian Abbiati, uno dei pochi nomi – insieme a Montella – che ti dicono qualcosa, e a una sincope in diretta di Galliani in tribuna. 

Quel 2 maggio tu non c'eri ancora. O meglio, c'eri in qualche forma e avrai forse sentito, forse amplificato dall'amnios, l'urlo che cacciai a quel semaforo di Fizzonasco, ascoltando la partita alla radio. Saresti nato sei mesi dopo, ma con lo scudetto. Milanismo.

Eccolo, è lui: Marco Van Basten, il cigno
Milanismo fu anche portarti, nella primavera del 2006, alla partita d'addio di Albertini, a San Siro, contro il Barcellona. Tornavano a giocare per il compagno Deme gli Invincibili: Baresi, Gullit, Desailly, Evani, Donadoni, Boban. Giocava ancora Maldini. Giocò, per poche decine di minuti, anche Van Basten, quel tanto che gli consentirono le sue caviglie fragili che lo avevano costretto ad abbandonare i campi di gioco già dieci anni prima; quel tanto che bastò a fargli fare un gol indimenticabile, di testa, in tuffo. Avevi sei anni e Van Basten era per te come Tarzan e Robin Hood, come Jim Hawkings e il Capitano Nemo: tutta colpa dei miei racconti. Ringraziai commosso Van Basten che quella sera mi regalò, e ci regalò la prova che le favole possono essere più vere della realtà.
Milanismo è stato ancora ieri all'ora di pranzo quando ti ho scritto in un whatsup: “Vado in bici. Non vedo il derby. Aggiornami tu”. Veder arrivare un messaggio, verso l'una e mezza con su scritto: “Inter”, è stato peggio di bucare una gomma. Ma milanismo, soprattutto, è stato rimanere immoto, fisso in piedi negli ultimi quindici minuti della partita, con l'auricolare nell'orecchio, vestito come un Mamil (Middle Age Man In Lycra) su un ghiaione assolato del Ticino, un panino in una mano e nell'altra la borraccia, ad aspettare con la stessa convinta, ottusa intensità con cui Massimo Troisi chiamava a sé il vaso immobile in Ricomincio da tre il pareggio. Il pareggio a tempo strascaduto – altro che gol di Ganz - e convincersi che se l'ha segnato, il sabato di Pasqua, a tempo scaduto, tipo tre giorni dopo la dipartita, uno che si chiama Cristián, senza neanche la h, ci sarà pure un dio giusto, un dio del greto, un dio del fiume, un dio ticinese o un dio cinese e basta. 


E dunque urlare di gioia tra un panino e una borraccia, e correre come un ossesso sul ghiaione, turbando la digestione sonnolenta dei semisdraiati sotto le rive frondose, e prendendosi pure un biasimevole “che uomo medio” dalla donna a cui avresti voluto spiegare che, tutto sommato, è già un qualcosa essere in media, inglese o meno, ma poi non ci fai caso perché in tutto quel climax ascendente – di cui, sia ben chiaro, sei fermamente convinto di esserne stato la causa efficiente – non hai capito ancora chi l'ha messa dentro, Lapadula o Romagnoli, Ocampos o, pensa se fosse davvero così, addirittura Donnarumma all'assalto, caro Pepe, detto Peppino, ecco questo è milanismo.

Poi, si sa, un involtino non fa primavera.
Ciau

Gino Cervi
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