30 gennaio 2014

Telegrammi

Cartoline di stagione: 25° e 26° turno 2013-14

19 gennaio 2014, Estadio "Vicente Calderón", Madrid
Ivan Rakitić spegne le ambizioni di primato solitario dei Colchoneros
Ritardi postali consegnano solo oggi alcuni telegrammi che provengono dagli ultimi turni dei campionati pedatori europei.

Il primo (datato 19 gennaio) arriva dall'Estadio "Vicente Calderón" di Madrid e ci segnala le difficoltà dell'Atlético ad assestare il colpo del KO agli avversari e alla Liga. Nel 25° turno, il Barcellona aveva balbettato un passo falso a Valencia, con il Levante, con un po' di fortuna e con qualche bravura del portiere Keilor Navas (occhio perché c'è lo troveremo di fronte con la nazionale della Costa Rica nell'umido tropicale di Recife il prossimo 20 giugno). Una vittoria in casa contro il Siviglia avrebbe ridato alla banda del Cholo la testa della Liga da tempi immemorabili. E invece, dopo un inizio promettente, la squadra si è come intimidita per strada e si è fatta riprendere regalando un rigore ai Rojiblancos, che hanno avuto il merito di restare sempre concentrati e attendisti. Ma sono i Colchoneros a lasciare come l'impressione che manchi loro qualcosa per far saltare il banco. Quest'anno hanno già incontrato tre volte il Barça pareggiando sempre, e ben due volte in casa, ma senza mai riuscire a mettere sotto i catalani. Sembrano avere toccato il massimo delle loro potenzialità, che sono pur sempre notevolissime, come saggeranno i ritmi compassati da sambodromo del Milan di Seedorf. Ma nonostante le moltissime vittorie e le rarissime sconfitte, rischiano di vedersi alla fine superati. Magari da quel sornione di Carletto nostro.

Il secondo telegramma (sempre del 19 gennaio) giunge invece dalla desolazione luccicante per la pioggia del Meazza, dove il Milan ha strappato tre punti alla sua bestia nera. Diversamente messo in campo da Seedorf - che ingaggia tutti i piedi educati della rosa e li addossa sulla trequarti, un po' larghi un po' stretti, più stretti quando salgono i laterali -, rumina per novanta minuti calcio lento, inefficace, velleitario, col solo pregio di coinvolgere meno del solito Nigel de Jong. Il Verona, dopo la strizza iniziale dovuta anche all'assenza del Toni, esce lentamente dalla buca e mostra di saper recitare molto meglio la parte che la commedia gli assegna. Ma, come spesso capita, la sicurezza genera distrazione, e puntuale un ronzino della difesa atterra Kakà, in fuga da se stesso e arrivato ormai a pochi centimetri dalla linea di fondo, dove sarebbe stramazzato per sfiatamento e impotenza. Mario - fischiato dopo due palloni difficili non agganciati, alla metà del secondo tempo - trasforma il penalty con una certa insicurezza, ma rivolge amorosi sguardi al mister. Tre punti, dunque, che fanno classifica e allontanano il quartultimo posto. Naturalmente il lavoro di un allenatore non si giudica dalla prima partita, e tanto meno se è la sua prima partita in assoluto da allenatore. E' sempre stato un vanitoso, Clarence Seedorf, e la sua carriera è stata ricca e fortunata, perché è arrivato sempre nelle (e se n'è sempre andato dalle) squadre giuste al momento giusto. Ora, si direbbe sia arrivato in quella sbagliata nel momento sbagliato; avrà bisogno di moltissima fortuna, dovrà essere meno vanitoso, e valutare bene quale 'filosofia di gioco' il suo XI debba interpretare (specie contro il Cholo), perché di ben poco dispone rispetto a ciò cui era abituato.

L'ultimo telegramma (in data 25 gennaio) proviene infine dallo Spotland di Rochdale [card], espugnato dallo Sheffield Wednesday, e ribadisce la persistenza (non l'invenzione) di una tradizione. Quella del venerabile torneo più vecchio della storia: la FA Cup. Che gioca i suoi turni non nell'infrasettimanale ma durante i week end, sfrattando la Premier dai giorni nobili e dai palinsesti televisivi. E non per i quarti o le semifinali, ma per i sedicesimi. È come se Cittadella-Inter non si giocasse a Ferragosto ma nel primo fine settimana dopo il capodanno. Inimmaginabile ...

Azor & Mans

13 gennaio 2014

Buco rossonero

Cartoline di stagione: 24° turno 2013-14

Berardi ha appena scoccato la sua quarta freccia
La cartolina di questo week-end arriva dalla provincia emiliana. Da Reggio, per la precisione. Da un santuario minore, l'ex 'Stadio del Giglio', acquistato dal patron del Sassuolo e presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, milanista, e ribattezzato 'Mapei Stadium' [card]. Forse, qui, presto poseranno una targa a ricordo del match più memorabile nella storia (sino a quest'anno secondaria) dell'Unione Sportiva Sassuolo. A rievocare la sera che Domenico Berardi fece quattro al Milan. Quattro a tre, come Italia-Germania, senza supplementari, quattro gol in mezzora o giù di lì. Chissà, forse sta sbocciando un campione (la rosea è oggi di questo avviso); forse è solo una meteora. Il ragazzo segna molto: ma degli undici gol finora a tabellino, sette li ha realizzati in sole due partite. E la difesa del Milan non costituisce attualmente un banco di prova infernale per un attaccante dotato di intelligenza degli spazi e riflessi rapidi. Doti che, senz'altro, Berardi ha.

Nella giornata che ha confermato quale distanza vi sia fra le prime tre e il resto del gruppo, colpisce il modo con cui i rossoneri, in vantaggio di due reti, si sono offerti inermi alle scorribande dei ragazzi con la maglia a strisce nero-verdi. Solo chi ha poco osservato il Milan di campionato, in questa stagione, potrebbe dirsene sorpreso. E' una squadra che vive di inerzie, che resta in campo - mentalmente e mediamente - venti minuti su novanta. Che fa e disfa, va sotto e recupera, va sopra e viene rimontato e travolto, per poi tornare all'assalto. Sono comportamenti costanti, che dicono di una inefficace gestione tattico-psicologica (se c'è) della squadra nel suo insieme, utile a spiegare anche la fase involutiva che stanno vivendo i giovani più dotati, quelli individuati da Prandelli come titolari indiscutibili dell'XI azzurro. Penso soprattutto a De Sciglio e a Balotelli. Può darsi che la lontananza dalla vetta, la coscienza di non essere competitiva ad alto livello - come la seconda parte della scorsa annata lasciava credere - abbia ulteriormente deconcentrato la truppa, complici le confuse vicende societarie, l'incertezza sul futuro, le immancabili voci di mercato.

Umori rossoneri
Siamo ormai arrivati al giro di boa. Privo - come si è soliti dire - di un gioco, il Milan sta lentamente smarrendo anche i suoi giocatori, e non per via degli infortuni. Il bilancio è un buco nero. Cinque vittorie in diciannove partite. Trenta punti in meno della Juventus, cinque in più del Bologna, attualmente terz'ultimo. La propaganda domestica esalta le performance (invero appena decenti) prodotte sul palcoscenico europeo; e per la prima volta in quasi trent'anni indica la conquista della Coppa Italia come grande obiettivo stagionale. Essendo il football materia insensibile alle parole e ai proclami, il solo obiettivo realistico per il Milan 2013-14 è quello indicato dal campo: evitare un'improbabile ma non impossibile retrocessione.

Mans

7 gennaio 2014

La solitudine bianconera

Cartoline di stagione: 23° turno 2013-14

5 gennaio 2014, Juventus Stadium, Torino
L'esultanza bianca e nera è giustificata
Arriva dallo Juventus Stadium di Torino [card] la seconda cartolina dell'anno solare. Senza "aiutini" - anzi con una direzione di gara perfetta - la Juventus vi ha sbaragliato la sera di domenica 5 gennaio anche l'ultima pallida concorrente per lo scudetto, che ha giocato decentemente solo per la prima mezzora senza però mai dare la sensazione di poter fare bottino pieno. Solo il Bayern ha impiegato meno tempo (correva il 23 novembre 2013: Borussia asfaltato al Westfalenstadion) per uccidere la Bundesliga. Siamo però al 6 gennaio e la stagione finirà tra più di quattro mesi. Quale senso potrà assumere per i bianconeri? L'obiettivo dichiarato a inizio stagione era il terzo scudetto consecutivo e dunque Conte e i giocatori lo hanno centrato: 16 vittorie, un pareggio e una sconfitta che ha suonato la sveglia, non lasciano dubbio alcuno (se non agli infingardi).

Paradossalmente la Juventus sta prendendo coscienza della difficile situazione in cui si trova ormai da un paio di stagioni. Troppo forte in Italia ma non competitiva in Europa, come ha mostrato il deludente girone di Champions. Mal celato, l'obiettivo di quest'anno erano i quarti e magari le semifinali. La finale dell'Europa League nel proprio stadio impegnerà ora tutto l'ambiente a non fallire la coppa di ripiego. Pur favorita sulla carta, le insidie non mancheranno e non vi è alcuna certezza di centrare il risultato. Anzi, il mancato traguardo potrebbe avere effetti negativi sull'immediato futuro.

In breve, la società è in una terra di nessuno. Se torna indietro (cioè, se si ridimensiona come obiettivi e fatturato) è un fallimento, dopo gli investimenti importanti sullo stadio, sul "marchio", su una crescita sportiva fondata su bilanci sani (questi ultimi, si ricordi, non ancora raggiunti). Se va avanti il vento contrario su una strada in salita sarà sempre più forte. Conte appare sempre più stretto negli abiti attuali e impaziente di misurarsi su scenari più alti. Aggiungiamo che Pogba andrà a Parigi senza alea alcuna (il dubbio sarà solo se prima o dopo i mondiali), e che Pirlo molto probabilmente finirà per coronare la sua carriera a Madrid (come meriterebbe).

La dirigenza andrà avanti, come ovvio e giusto. Ma in solitudine. In Europa non gode di alcuna influenza, come ha mostrato la due giorni di Istanbul. In Italia è il declino (agonistico, economico e culturale) dell'intero movimento a renderla ancora più sola e debole: il club è finito con l'essere l'unica pezza di qualità di un tessuto logorato, come aveva colto con lucidità, dall'esterno, Simon Kuper già un anno fa [vedi]. Da allora, semmai, la tendenza si è acuita. Agnelli e i suoi collaboratori stanno per affrontare i mesi più difficili della loro gestione, in cui dovranno vendere bene i gioielli e acquistare meglio, rimanere competitivi (l'esempio è quello della vendita di Zidane), sanare finalmente il bilancio, e trovare un tecnico di qualità, possibilmente uno straniero vincente disposto a scendere in Italia. Non sarà facile. Ma un eventuale fallimento sarebbe tale non solo per la Juventus ma per l'intero calcio italiano.

Azor

2 gennaio 2014

Un paese che ha smesso di amare il suo calcio

Cartoline di stagione: 22° turno 2013-14

La prima cartolina dell'anno arriva dallo Stadio "Giuseppe Meazza" di Milano. Chiuso e deserto dal 22 dicembre. Specchio di un paese che vive delle glorie del proprio passato ed è ormai paralizzato da un viluppo inestricabile di privilegi che inibiscono chi vorrebbe provare a meritarsi in qualche modo le eredità dei nostri padri. Parlo di politica, ovviamente. Calcistica.

Lo Stadio "Giuseppe Meazza" di Milano, chiuso per ferie
Come è noto, i club italiani vivono da almeno un decennio una progressiva crisi economica - con bilanci perennemente in deficit e flessione dei fatturati per incapacità di generare ricavi che non derivino dai diritti televisivi - che ne ha allargato la distanza rispetto alle principali concorrenti europee. Nel 2013 la Juventus ha fatturato 275 milioni (con un deficit di 16) mentre il Bayern ne ha fatturati 432 (con un utile di 14); l'Inter ha fatturato 176 milioni (con un deficit di 74) mentre il Real Madrid ne ha fatturati 520 (con 36 di profitto); il Milan (nel 2012) 276 milioni (con 7 di deficit) mentre il Manchester United 434 (con 20 di utili). Che un imprenditore come Erick Thohir abbia deciso di rilevare l'Inter è il segno di quanto le nostre squadre siano ormai degli affari a prezzi d'occasione. Occorrerebbe tenere sempre presenti questi dati quando si leggono i titoloni sul calcio-mercato e si registrano le precoci eliminazioni dalla Champions. E' possibile invertire la tendenza? Sì, come mostrano squadre meglio gestite che hanno fatturati inferiori ma risultati di gestione positivi. Quale la via? Vendere bene e acquistare meglio (esempio del Napoli), ingaggi più bassi (Fiorentina), tagli ai costi di produzione (Udinese) e incremento del fatturato commerciale (Roma). Che non significa solo sponsor sui tabelloni, vendita di magliette o incassi allo stadio, ma sfruttamento del marchio (esempio: il Manchester lo appone anche sulle patatine malesi "Master Potato") e valore aggiunto.

Quest'ultimo, però, ha una componente immateriale, squisitamente estetica: gli stadi pieni e senza violenze, l'intensità di gioco e l'agonismo della Premier inglese o della Bundesliga ne sono gli esempi più avanzati. Se si comparano con attenzione una partita del campionato inglese e una della nostra Serie A la differenza è sconfortante: in Inghilterra si corre per 100 minuti, in Italia si passeggia; là il gioco è fluido e continuo al punto che i replay televisivi faticano a trovare il momento per essere proposti, da noi è continuamente spezzettato da uomini che si mettono le mani addosso e rotolano a terra (pretendendo che la palla sia buttata fuori); gli arbitri italiani sono costantemente inseguiti da capannelli di giocatori urlanti; gli spalti inglesi sono gremiti anche nelle partite tra squadre di fondo classifica, quelli italiani non raggiungono il tutto esaurito nemmeno nelle partite tra le big. Potremmo continuare, ma la traduzione economica è impietosa: i diritti tv esteri della Premier sono clamorosi, quelli della Serie A sempre meno richiesti. In Asia i telespettatori guardano anche i match spagnoli e tedeschi, ma raramente quelli italiani. L'abisso tra il calcio italiano e quello tedesco e inglese (ma anche olandese e francese: dove gli stadi sono pieni) si sta creando in questi anni su un punto molto semplice: il calcio italiano è percepito come sempre più brutto rispetto a quello dei paesi concorrenti.

Non ce ne siamo accorti, ma ormai le partite della Serie A interessano solo i tifosi italiani. Con una complicazione: allo stadio ci vanno ormai solo gli ultras (con tutti i problemi che ben conosciamo) e sempre meno gli appassionati. La scomodità degli stadi e la crisi economica c'entrano fino a un certo punto, perché proprio i casi inglese, tedesco o francese mostrano che esiste una fascia consistente di tifosi che è disposta a spendere per vedere delle belle partite allo stadio (e molti impianti non sono poi così comodi come si decanta qui in Italia: sono semmai più fascinosi). Il problema è che il calcio italiano di vertice non offre più delle esperienze piacevoli, e dunque la maggioranza degli appassionati resta a casa, davanti alla tv, dove spende quel che ritiene più adeguato (cioè poco) al valore dello spettacolo offerto. Restando irretita dal degrado morale e culturale di un calcio narrato dalle moviole e da ultras travestiti da giornalisti. Si tifa contro, ovunque, a prescindere: e manca sempre un rigore a qualcuno.

I resoconti delle partite del 26 dicembre 1971
in una pagina dell'edizione del "Corriere dello sport" del giorno dopo
Per risalire la china occorrerebbero idee nuove e determinazione nel perseguirle. Ma la Lega di Serie A mostra da anni di non averne più e di limitarsi a litigare per un becchime sempre più esiguo. La pausa natalizia è un esempio clamoroso di come si butti via da anni un'occasione straordinaria. Durante le vacanze le famiglie sono alla ricerca di occasioni di svago e di divertimento. Gli attuali dirigenti calcistici italiani mostrano di non riuscire nemmeno a immaginare di poterle intercettare. E' come se durante il periodo in cui le famiglie si dedicano allo shopping i negozianti tenessero chiusi i negozi. Eppure è quello che accade da anni in Lega. Ma non è sempre stato così: c'è stato un tempo in cui la Serie A andava in scena nei giorni delle vacanze tra Natale e Capodanno, come fanno da sempre gli inglesi. La differenza è che loro continuano a farlo (non senza eccessi), noi invece abbiamo smesso e ci siamo dimenticati che i nostri padri andavano allo stadio durante le vacanze di Natale. Quando? Ancora il 30 dicembre 1989 e 1990, o il 31 dicembre 1983 e 1988, o il 2 gennaio 1994 o 1983. Sono vent'anni che si gioca al più tardi il 23 dicembre e si riprende al più presto il 4 gennaio. Nella stagione 2006-2007 si arrivò addirittura a una sospensione dal 23 dicembre al 14 gennaio. Ma quarant'anni prima si giocò il 24 e il 31 dicembre 1966 e l'8 gennaio 1967. Nel 1971-1972 si giocò il 26 dicembre e il 2 gennaio.

Perché si è smesso di farlo? Per miopia (la supposta marginalità degli incassi al botteghino) e per soddisfare i piccoli privilegi (il "diritto" al riposo) di tutte le componenti calcistiche. L'elemento distonante è che si tratta di liberi professionisti e di aziende votate, in teoria, al profitto. Il pasticcio è tale per cui la Serie A si blocca per due settimane sul più bello, cioè prima dell'assegnazione del titolo di campione di inverno: i giocatori stranieri volano in sud America, gli altri sulle spiagge australi, tornano in una forma che dir precaria è un eufemismo, e i tecnici constatano la difficoltà di riprendere il filo dove era stato interrotto. Raramente le partite della Befana sono di livello: già lo spettacolo è in decadenza: in questo modo lo si svilisce ancora di più.

Eppure basterebbe un'idea talmente banale da non essere nemmeno concepibile da una generazione come quella attuale di dirigenti inadeguati e indegni eredi della nostra tradizione calcistica. Basterebbe istituire un formato per cui il titolo di campione di inverno venga aggiudicato il giorno dell'Epifania, giocando i due turni precedenti il 26 dicembre e il 1° gennaio: tre giorni di festa, slegati dalla ricorrenza domenicale. Se gli inglesi affollano lo stadio il Boxing day e il giorno di Capodanno non si vede perché non dovremmo tornare a farlo anche noi, come facevano le generazioni dei nostri padri. Con questa formula, lo scontro per il titolo tra Juventus e Roma, per esempio, sarebbe andato in scena ieri, all'apice agonistico della prima fase di stagione, e non tra reduci da frettolose vacanze esotiche come avverrà domenica prossima. Dopo l'Epifania si dovrebbe sospendere per almeno 20 giorni il campionato, anche per non esporre i giocatori ai rigori delle freddissime serate invernali su campi pesanti e pericolosi. Le squadre che giocano le coppe europee potrebbero così svolgere una più adeguata preparazione per la ripresa dei turni ad eliminazione diretta da febbraio, come fanno da tempo quelle tedesche. Grazie a un'attenta politica promozionale dei prezzi, nei turni natalizi si potrebbero riempire gli stadi con le (invocate, ma solo a parole) famiglie. Stadi più gremiti aiuterebbero ad alzare il valore aggiunto del nostro derelitto campionato. Facendo attenzione agli orari si potrebbe evitare di sovrapporle a quelle della Premier e vendere i diritti all'estero - magari nello stock di tre soli turni ma a più alto contenuto agonistico (il palio del titolo di inverno) ed estetico (stadi più affollati di appassionati, meno spettrali rispetto ai lager in cui si aggirano gli ultras) - approfittando delle pause degli altri campionati (ammesso che le loro leghe non fiutino prima l'affare).

Ma non facciamoci illusioni: l'idea è troppo semplice. Soprattutto, viene da chi ama il calcio come gioco, come spettacolo, come occasione di vita collettiva e ricreativa. E' un'idea vecchia, di matrice umanistica, lontana dagli algoritmi finanziari elaborati dagli uffici studi della Lega (dove si pagano laute consulenze per produrre il declino del prodotto). In quelle stanze si è smesso da tempo di amare il calcio, come constatiamo settimanalmente nel clima violento dei nostri stadi, e quotidianamente in quello intossicato delle nostre radio-televisioni e in quello degradato dell'anonimato sui social network.

Vedi anche "Almost too perfect a metaphor for Italy itself", sull'immagine attuale del calcio italiano all'estero