16 giugno 2017

Gigio, perché?

Addio Milan!

Sarebbe semplicissimo raccontare la vicenda Donnarumma seguendo un flusso di coscienza emotivo. Quello del milanista focoso che ho dentro e che lotta per sopravvivere a questi anni in cui occorre parecchio cinismo e lucidità per valutare la situazione del club. Eppure ho deciso di non farlo. Ho deciso di non lasciarmi andare a facili romanticherie che poco si addicono al football attuale. Ho provato dunque a pormi delle domande, inseguendo un filo logico utile a comprendere cosa abbia causato l'insanabile frattura tra il Milan e questo ragazzotto campano, cresciuto e diventato campione sotto le attente premure di Alfredo Magni. Me ne sono fatta una in particolare: Gigio, perché? 

Il rinnovo contrattuale del portiere rossonero è una questione annosa, un groviglio di spine che la vecchia gestione, nella figura di Galliani, ha deciso di lasciare in eredità al nuovo management. Il 25 ottobre 2015 Donnarumma, a soli 16 anni, esordisce in Serie A. Contro il Sassuolo valuta male una punizione di Berardi che si insacca dal suo lato (foto). Nonostante questo appare evidente ai più quanto il talento del ragazzo sia cristallino. Lo stipendio del giocatore si attesta su cifre particolarmente modeste (circa 250.000 euro) e il contratto in essere andrà in scadenza a giugno 2018. I giocatori minorenni infatti non possono firmare rinnovi quinquennali, ma al massimo di durata triennale.

Donnarumma si impone in pochissimi mesi come titolare inamovibile del Milan, spingendo Diego Lopez ad aprire una vera e propria polemica con la società. Divergenze che porteranno alla separazione (poco vantaggiosa per il Milan) nell'estate successiva. Nei mesi di gennaio e febbraio 2016, i giornali cominciano a paventare l’esistenza di una trattativa per un rinnovo contrattuale che avrebbe dovuto prolungare di un anno il rapporto tra Gigio e il Milan (fino al 2019); trattativa basata su cifre ritenute congrue al ruolo che il ragazzo si era guadagnato sul campo: quello di portiere titolare del Milan. Eppure questo rinnovo, circa 1 milione di euro più bonus, non arriverà mai. Ci saranno prima quelli di Zapata e Montolivo (a giugno), e poi quello di Bonaventura - gennaio 2017, in piena trattativa per la cessione societaria. Chi assiste Giacomo Bonaventura? Mino Raiola, il procuratore di Donnarumma. È proprio Mino Raiola oggi ad esprimere dubbi legittimi sulla consistenza finanziaria del progetto Milan, perplessità che avrebbero giocato un ruolo determinante nelle scelte del nuovo portiere rossonero.


Una storia di figli e figliastri, una vicenda in cui Bonaventura è abbastanza inconsistente dal punto di vista tecnico per prendersi dei rischi che invece non devono sfiorare la carriera di Gigio. Poi il 13 aprile 2017 arrivano i cinesi (ne arriva uno soltanto, a voler essere precisi) e la questione passa nelle mani di Fassone e Mirabelli. I due trovano una matassa molto complicata da sbrogliare. Donnarumma è il migliore al mondo nel suo ruolo in prospettiva futura e gioca in una squadra che va ricostruita da cima a fondo. I 120 milioni spesi in cartellini, dal 2015 in poi, non sono bastati per avviare un progetto con autentiche ambizioni e la rosa deve essere completamente stravolta. L’offerta della nuova società rossonera è di 5 milioni all'anno per 5 anni, ma Donnarumma rifiuta dopo 2 mesi di tira e molla ed interviste orchestrate.

Gigio, perché?

Forse perché non è mai esistita una vera e propria trattativa per il rinnovo contrattuale di Donnarumma. O meglio, la trattativa è stata unilaterale. Era stato deciso da tempo che il giovane portiere rossonero sarebbe dovuto arrivare vicino alla scadenza contrattuale, una condizione favorevole per qualsiasi procuratore. Una situazione in cui la società non ha più alcun diritto, nemmeno quello di contattare un proprio assistito telefonicamente "scavalcando" l'agente. Il cambio di proprietà non solo non ha modificato questa decisione antecedente, ma ne ha rafforzato la posizione. 

Inutile poi appellarsi alla famiglia del ragazzo, che ha già dimostrato in passato di essere inaffidabile e di perseguire esclusivamente interessi di natura extra-calcistica. Cito a questo proposito l’estratto di un’intervista a Giocondo Martorelli (realizzata da Tuttomercatoweb): "Ho detto una cosa concreta prima. C'è la risposta: la famiglia il giorno X del 2013 ha firmato per l'Inter. È tornata a Napoli, la mattina seguente hanno preso un aereo e hanno firmato per il Milan. Quello che avevano firmato il giorno prima non è valso nulla. Cosa devo dire di più? Mi stupisce che alcuni giornalisti ignorino o facciano finta di non ascoltare".

Ma Gigio a 18 anni poteva scegliere. Probabilmente non ha avuto la forza necessaria per imporsi, si è fidato delle persone che lo hanno portato ad essere quello che è diventato. Tutta la vicenda nei suoi contorni extracalcistici sembra essere disegnata per mettere un procuratore nella condizione di poter ricattare una società. Di poter agire come meglio crede venendo meno perfino alle semplici regole di cortesia che regolano i rapporti tra club e giocatori. Questa storia di figli e figliastri è una bruttissima pagina di 'non calcio' che probabilmente ammazza i sogni di una generazione di piccoli tifosi. Ai 'giornalisti' capaci solo di twittare, forse perché incapaci di esprimere pensieri articolati oltre i 140 caratteri, consiglio di porre i loro dubbi e interrogativi nelle sedi adeguate. A Donnarumma faccio un augurio di buona fortuna. Ne avrà bisogno.

Oslo


11 giugno 2017

Leigh Griffith entra ed esce dalla storia nel giro di tre minuti e mezzo


Hampden Park non ha più nemmeno un decimo del fascino di un tempo, quello restituito da nitidissime immagini in bianco e nero scattate durante famose partite. Ospita meno della metà degli spettatori che, per esempio, vi si assieparono per vedere il Madrid alzare la quinta Coppa dei campioni, il 18 maggio 1960. Fa oggi lo stesso effetto del Maracanã, in sostanza. L'effetto di un tempo del football che se n'è andato e non tornerà mai più.

Hampden oggi

Hampden un secolo fa (o poco meno)

Lo stesso, probabilmente, si può dire per Scozia-Inghilterra. Da un infinitamente lontano 30 novembre del 1872 le sfide sono state, con quella di ieri, ben 114, e quasi sempre si è giocato con punti in palio - ma anche le semplici amichevoli non è che facessero differenza. I più giovani si domanderanno come faccia lo score complessivo a essere così equilibrato (41 vittorie scozzesi, 48 inglesi), tanto più che se consideriamo gli ultimi 20 incontri (a partire dal 4 giugno 1977 - sì, con la fine della British Home Championship le occasioni si sono poi diradate) scopriremo come sia soltanto di recente che i Leoni hanno acquisito quel vantaggio complessivo sui rivali.

Una superiorità che ieri stavano confermando senza particolare fatica. Uno a zero, un gol di Oxlade-Chamberlain che chiude una fase in cui gli scozzesi commettono una serie di errori tecnici e tattici addirittura improbabili; un gol oltretutto segnato dal Gunner a difesa schierata, convergendo verso il centro dell'area e scoccando poi senza opposizione alcuna un sinistro che centra in pieno Gordon (il quale, ostruito dai suoi, non l'aveva visto partire) e poi schizza in rete.

Hart pensava la mettesse a sinistra.
E' palesemente in ritardo
La reazione scozzese tarda a manifestarsi. Forse, il pubblico che inizia a cantare l'inno per coprire la festa inglese mette un po' di convinzione nella testa e nei piedi di Leigh Griffith. E' il centravanti del Celtic, uno sul quale non vale la pena dilungarsi più di tanto, anzi. Diciamo che sino a ieri vantava dodici gettoni nella Tartan Army; le sue prime apparizioni risalgono alla fine del 2012, ma la prima partita intera l'aveva conclusa a Wembley, nell'andata di questo gironcino di qualificazione al mondiale di Putin, ed era stato un secco tre a zero (inutile sottolineare per chi). Da sostituito o da subentrante, a ogni modo, il suo nome sui tabellini non c'era ancora. Ieri pomeriggio, dunque, mancavano pochi minuti al triplice fischio, e tra uno sbadiglio e l'altro ho fatto in tempo a pensare che (per dire) Lapadula (uno a caso) della nazionale di Scozia sarebbe la stella indiscussa, vista la pochezza degli attaccanti che il povero Strachan è costretto a reclutare. Ma ecco: due punizioni dal limite, dalla medesima piastrella (centimetro più centimetro meno), e Griffith (mancino) la mette prima alla sinistra e poi alla destra di Hart. Due esecuzioni vellutate (la seconda quando il cronometro segna 89 minuti e 3 secondi), di qualità eccelsa. Roba alla Messi, alla Dybala o perlomeno (se non vogliamo esagerare) alla Diamanti. Hampden ruggisce - che Hampden ruggisca è un vecchio luogo comune, ma un fondo di verità c'è di sicuro. Griffith sta per entrare nella storia. Nella Storia, anzi, con la S maiuscola. Nella Storia del calcio britannico quanto meno, perché una vittoria scozzese tra queste mura manca dal 1985 (di mezzo, c'è stato l'inutile uno a zero di Wembley del 1999: inutile perché era il match di ritorno dei play-off per andare all'europeo belga-olandese, e ci andò l'Inghilterra). 

I Leoni si avventano, e cosa dovrebbero fare? Perdono palla, riparte la Scozia, ci sarebbe la possibilità di un contropiede micidiale, o perlomeno di portare il pallone e tenerlo (il maggior tempo possibile) lontano dall'area, ma le qualità nel palleggio sono infime, la sfera torna tra piedi inglesi, dalla sinistra un cross lunghissimo viaggia verso il secondo palo dove, indisturbato, arriva Kane, che con irrisoria facilità insacca il definitivo due a due. Il cronometro segna 92 minuti e 27 secondi. 

L'euforia di Hampden si spegne. Tutto è, ancora una volta, rimandato alla prossima volta.

Volete vedere almeno gli highlights di questo non storico match? Andate qui.

Mans

4 giugno 2017

Picnic madridista sul prato di Cardiff

Fettine di coppa: la finale di Cardiff

Le finali della Champions League o della Coppa che dir si voglia sin dalle origini sono state normalmente equilibrate. Lo dicono i numeri: in 62 edizioni dell torneo, 17 finali si sono concluse ai supplementari e oltre, mentre 25 hanno scritto sull'albo d'oro il nome di una squadra uscita vittoriosa con un solo gol di scarto. Grosso modo, dunque, solo una volta su tre si registra un dominio numerico che non lascia spazio a qualsiasi tipo di recriminazione. Però, solo nove volte è successo che la squadra campione abbia seppellito la squadra sconfitta con almeno tre gol di differenza: ne sono stati capaci il Real (1960, 2000, 2014 ma ai supplementari, 2017), Manchester United (1968, ma ai supplementari), il Milan (1969, 1989, 1994) e il Bayern (1974, ma era una finale ripetuta).

Immagine ormai consueta

Quattro a uno nei novanta minuti, e un parziale di tre a zero nel secondo tempo. Per la Juventus, la finale di Cardiff è una ferita sportiva profonda; è la settima finale bucata (Benfica e Bayern sono staccate: il parziale è ora di sette a cinque); è stata, soprattutto, una sconfitta senza attenuanti, una resa progressiva e ineluttabile di fronte alla superiorità (tecnica, tattica, atletica) del Real, una superiorità di dimensioni non pronosticabili (e da nessuno pronosticate) alla vigilia. Tant'è vero che, all'inizio, si è vista soprattutto la Juve; baricentro alto, aggressività, l'idea era di replicare il primo tempo dello Stadium col Barça; si è avuta la sensazione di una grande pericolosità, ma occasioni vere non sono arrivate. Un primo tempo dispendioso per la Juve, sornione per il Real - che incassa il meritato pari di Mandzukic senza battere ciglio. La metamorfosi della partita è nitidissima dopo l'intervallo, quando le Merengues stroncano gli uomini di Allegri sul ritmo e col possesso palla, inibendone ogni tentativo di ripartenza e ripartendo veloci a ogni pallone recuperato (il terzo gol, con l'anticipo di Modrić e la sua corsa in profondità a crossare per il solito Cristiano - abile nell'approfittare della paralisi di Chiellini -, fotografa e riassume alla perfezione una lunga fase di partita).

Certamente, il Real ha goduto di una certa fortuna - ingrediente che difficilmente gli viene a mancare, da quando è partito José Mourinho. Due gol che, sino a qualche anno fa, sarebbero stati chiaramente classificati come autoreti, due tiri 'viziati' da deviazioni decisive. Quello di Casemiro ha fatto saltare per aria la santabarbara. L'assetto difensivo (considerato dai più leggendario) della Juventus è collassato, e il match si è trasformato in un monologo madridista difficile da commentare. 

Luka Modrić
Naturalmente i media esaltano Cristiano Ronaldo e i suoi numeri, i suoi record in una carriera definita quasi implausibile (Daniel Taylor, The Guardian: vedi). Se però si volesse rinunciare ogni tanto al culto delle personalità e all'adorazione dei palloni d'oro, occorrerebbe ammettere che gli uomini decisivi, coloro che si sono impossessati del pallone e della partita, portano il nome di Modrić, Kroos, Isco, assecondati sulle corsie larghe da Marcelo e Carvajal. Il reparto di mezzo del Real ha schiacciato, soffocato, ridotto all'impotenza quello della Juve. Allegri non ha saputo opporre, a questo dominio, mosse efficaci e soprattutto tempestive. Le sostituzioni (una delle quali incomprensibile) sono arrivate a partita già virtualmente chiusa, appena incassato il terzo gol. E nulla hanno sortito, anzi. 

Difficile valutare ora quale sarà il peso della sconfitta sulla Juventus e sulle sue strategie immediate. La rosa ha un'età media altissima, la più alta tra i top-club europei. Fra l'altro, ieri sera in campo (al fischio d'inizio) c'erano otto giocatori assenti due anni fa a Berlino, cinque dei quali trentenni e ultra-trentenni. Non è bastato innestare esperienza e abitudine alla vittoria per sfatare il tabù. Prima o poi, è ovvio, la Juventus ce la farà ad alzare l'ambito trofeo. Accadrà, forse, nella più sorprendente delle stagioni e nella più strana delle partite. Quando nessuno ci scommetterà e i più avranno smesso di crederci.

Mans