23 novembre 2015

Col senno di poi

In ripa Arni

Ieri sera Paulo Sousa si è presentato in sala stampa scuro in volto e decisamente meno filosofico del solito. Il pareggio con l'Empoli gli ha lasciato l'amaro in bocca. E ha ragione. Se la Fiorentina avesse perso la gara casalinga contro i cugini allora altro che scudetto. Avrebbe dovuto salutare anche le ambizioni da terzo posto. Perché quelle sono le partite che decidono una stagione, quelle sono le partite che le grandi squadre vincono sempre. 

L'Empoli è entrato in campo come chi sta per giocarsi la partita della vita, quella che conta più delle altre. Ha impostato la gara sulla corsa, sul pressing. I giocatori di Giampaolo erano un moto perpetuo, ma mai confusionario. Sapevano perfettamente cosa fare in ogni zona del campo. E questo perché l'Empoli è una piccola grande squadra, non è il Frosinone né il Carpi, le quali sono entrambe belle realtà del nostro movimento calcistico, ma hanno centrato la massima serie come chi si è guadagnato un viaggio in prima classe e aspetta solo di tornare a comprarsi il biglietto di seconda. Glielo auguro di cuore, ma non credo che si salveranno. L'Empoli è una società organizzata che fa capolino in serie A regolarmente. Rappresenta una piccola realtà urbana, ma calcisticamente è molto di più. Per queste ragioni, insieme alla preparazione di un tecnico sempre con la schiena dritta come Giampaolo,  la Fiorentina e Paulo Sousa avrebbero dovuto affrontare diversamente la partita di ieri. La Fiorentina non ha due squadre da scudetto, ma nemmeno una e mezzo. Se giocano i titolari allora i viola possono vincere contro chiunque quest'anno, altrimenti si fa dura. E si fa dura in tutti i reparti.

La difesa è quello più collaudato. Tomovic può sostituire Roncaglia senza che la solidità difensiva ne risenta troppo a patto che dietro si giochi a tre e che su quella fascia, la destra, ci sia un esterno vero, non Rebic. Il povero ragazzotto croato ce la mette tutta per compiacere il mister, ma è una seconda punta e basta, non ha le caratteristiche per giocare in quel ruolo. Sousa non è uno sprovveduto e credo lo schieri da quella parte, sottoponendolo a uno stress fisico imponente, consapevolmente, per farlo crescere. È lo stesso motivo per cui schiera a sinistra Bernardeschi il quale è un trequartista puro. Sono ragazzi giovani e devono maturare per diventare campioni. Ma se Bernardeschi ha la struttura fisica (e un talento nettamente superiore a Rebic) per coprire anche un ruolo non suo, il croato non può farcela e gli esperimenti condotti fin qui da Sousa lo dimostrano. A centrocampo Mati Fernandez e Mario Suarez non riescono a dare il contributo che da loro ci si aspetta. Tutti dicono che il cileno sia potenzialmente fenomenale, ma non è più tempo per le potenzialità. La Fiorentina, complice un calendario favorevole, si trova a lottare per le primissime posizioni. Non si può azzardare più niente a questo punto della stagione. Fernandez non incide, trotta, gira su se stesso, porta palla per dieci metri e arretra di quindici, non azzecca una verticalizzazione, non tira in porta e quando ci prova la palla finisce oltre le curve. Può fare il tredicesimo quando le partite si mettono bene, niente di più. Suarez è un enigma. Solo lo scorso anno giocava nella squadra vice campione d'Europa e campione di Spagna. Non era un titolare inamovibile per Simeone, ma non si può pensare che sia un bluff. Forse non ha assimilato i movimenti della squadra o forse non ha nella sua struttura il tipo di gioco tutto pressing e verticalizzazioni di Sousa. Il fatto è che anche lui, a questo punto della stagione e con questa classifica è un lusso che la Fiorentina non può permettersi. A questo punto della stagione Badelj deve giocare sempre. Accanto a Vecino e con Borja Valero più avanzato, rappresenta il metronomo della Viola. Solo per questo non si è ancora sentita la mancanza di Pizzarro.

Kalinic torna a centrocampo, pallone sotto braccio,
dopo aver segnato il gol del definitivo 2-2 contro l'Empoli
Capitolo attacco: la Viola non può non far giocare sempre Kalinic.  È in stato di grazia. Segna sempre e se non segna fa segnare. Apre spazi, si muove costantemente, ha fisico e ora ha iniziato anche a centrare la porta con regolarità.  È l'Higuain della Fiorentina e deve essere sempre in campo. Babacar è, purtroppo, un'altra scommessa persa. Il giovane attaccante viola ha talento e fisico, ma non ha movimenti ed è caratterialmente inadatto a questa squadra. Se il pallone gli capita fra i piedi sa tirare, può saltare un uomo, centra la porta anche da lontano, ma non è questo ciò di cui la Fiorentina di Sousa ha bisogno. Non rientra, non pressa, non si muove senza palla. È perennemente svagato. Sarebbe un ottimo attaccante per le partitelle in piazza delle scuole nelle calde giornate d'estate fra amici. In serie A serve altro e se a questo punto non lo ha capito, è meglio lasciarlo riposare, soprattutto mentalmente, così da poterlo utilizzare quando, nei pantani invernali, servirà l'ariete per i complicati finali di partita che, certamente, verranno. Altra storia è Pepito Rossi. Siamo sicuri che il ragazzo non abbia bisogno di giocare di più? Ma su questo ci fidiamo di Sousa che lo vede tutti i giorni e sa, meglio di noi, quanto sia importante averlo al massimo.

In definitiva la gara di ieri ha palesato quanto sia rischioso adottare un turnover così spinto in una squadra che non ha la rosa per poterlo fare o almeno non ce l'ha per poterlo fare sempre indipendentemente dall'avversario. Altre volte è andata bene, ma si giocava contro squadre più deboli e meno organizzate. Ma queste sono le considerazioni fatte col senno di poi. Sousa fin qui ha sbagliato pochissimo. Si è guadagnato un credito notevole ed è giusto così. D'ora in avanti però bisogna tenersi aggrappati a questa classifica coi denti. Consapevoli di non essere la squadra più forte.
Ora sotto con il Basilea. Serve ripartire subito, ma stavolta dal primo minuto e senza più esperimenti.


Cibali

22 novembre 2015

Ah, don Andrés ...

Cartoline di stagione: 13° turno 2015-16

Un sabato di grande partite riaccoglie il football nell'Europa intimidita e quasi militarizzata. Ovunque si esegue la Marseillaise; al Bernabéu una versione più soft, per solo pianoforte, ne fa apprezzare la melodia ma acuisce la tristezza. 

Don Andrés: alla fine il Bernabéu sarà costretto agli applausi per lui
Non so se anche all'Etihad è andata allo stesso modo: vero è che Citizens e Blancos sono stati letteralmente spazzati via dai loro avversari di giornata. I Reds sembrano destinati a rivivere, è iniziata l'era Klopp. I Blancos sono orfani di tutto, sono un branco di pedatori che ha scordato totalmente cosa sia un gioco di squadra, una tattica, una strategia, una copertura del campo, il pressing, tutto. La facilità con cui don Andrés ha guidato la razzìa del Bernabéu ha pochi precedenti, ma dai tempi di Cruijff in poi si ricordano solo molte lezioni di football impartite dal Barça, quasi nessuna dal Real. Quella di ieri, se vogliamo, vale anche di più, un quattro a zero senza attenuanti (senza pali, sfortune, rigori negati), nonostante le legnate (Ramos si becca un cartellino solo al quinto intervento spaccacaviglie), nonostante l'assenza del leader tecnico, nonostante gli anni che passano ma non ancora per don Andrés Iniesta, uno dei tanti che il pallone d'oro l'avrebbero strameritato e ai quali è stato negato da coloro che del calcio vorrebbero essere la rovina (i Blatter, la Fifa, gli sponsor arabi), ma cui il calcio, per sua forza intrinseca, inevitabilmente sopravviverà. Quattro a zero, dunque, e per Benitez inizieranno mesi (o settimane) di passione. Dopo il licenziamento di Carletto (l'unico capace negli ultimi dieci anni caratterizzati dall'egemonia catalana di farsi apprezzare da uno spogliatoio - per così dire - difficile, di costruire - faticosamente - un'identità alla squadra, e infine di vincere qualcosa di importante) non era difficile prevedere che sarebbe andata così. 

E' finito da poco El Clásico, e nello Stadium inizia il partitone italiano. Juve-Milan, chi perde si perde, e si rassegni a una stagione da comprimario - dicono (a una stagione da protagonista del Milan nessuno credo abbia seriamente creduto). Il primo tempo è sconfortante. La quantità di errori tecnici è impressionante, passaggi di pochi metri sbagliati di metri, stop approssimativi. La tipica partita da oratorio. Da Madrid a Torino, ma è stato come passare dagli Uffizi al Museo parrocchiale di San Martino Siccomario (con tutto il rispetto). La Juve cerca di fare qualcosa, sa cosa deve fare ma non ci riesce, o ci riesce a tratti. Il Milan fa quel che può, non ha altre risorse e non ha giocatori intorno a cui costruire una nuova fisionomia di squadra. Poi, nel secondo tempo, uno sprazzo di qualità risolve la partita a favore (giustamente) dei bianconeri. E il campionato 'di vertice' del Milan, se mai era davvero iniziato, finisce lì.

Alla prossima.

Mans