23 febbraio 2017

Gli scozzesi snobbano la Champions e hanno le loro buone ragioni

Fettine di Coppa: ottavi di CL (andata, seconda settimana)

Quelo che ha appena calciato somiglia vagamente ad Harry Kane.
Ma è Andrew Shinnie, nativo di Aberdeen, centrocampista
che presta la sua opera agli Hibs, sebbene sia
di proprietà del Birningham City.
Parecchia gente, a Edimburgo, ha snobbato ieri gli ottavi di Champions e trascorso la serata non davanti alla tivù ma a Easter Road. Che è poi lo stadio dell'Hibernian Football Club, fondato nel 1875 e, qui, di casa dal 1893. Beh, era una serata speciale, una serata di coppa anche per loro; una coppa giunta, come la Champions, agli ottavi di finale: la Scottish Cup, che si disputa dal 1873, dunque una competizione seconda, per longevità, solo alla più prestigiosa Challenge Cup (FA Cup vulgariter) d'Inghilterra. A rendere ancora più speciale la serata, per la gente di Edimburgo, c'era che il passaggio ai quarti se lo contendevano le due squadre cittadine. Gli Hibs, appunto, che ne sono (incredibilmente, va da sé) i detentori, e gli Hearts (Heart of Midlothian Football Club), in un replay, fra l'altro, a campi invertiti. Un derby che si è disputato ormai quasi trecento volte. Ma una sfida tra club appartenenti a categorie diverse, perché gli Hibs militano da un paio d'anni in Championship, mentre gli Hearts galleggiano dignitosamente, alle spalle delle solite grandi di Scozia, nella Premier League. Bene: hanno vinto gli Hibs, senza discussioni, tre a uno, e i loro fans avranno senz'altro pensato che ne valeva la pena, eccome, di ignorare il Leicester e pure la Juve, alle prese con palloni che, probabilmente, non considerano più importanti dei loro.

Il nuovo idolo del Mestalla:
 è già adorato dai compagni di squadra
In Spagna invece la coppa non la snobbano, anzi diciamo che sono soprattutto i network televisivi a non volerselo permettere, e infatti il recupero del Mestalla tra Valencia e Real Merengues si è giocato nel tardo pomeriggio, consentendo a tutti di vedere tutto, anche la partita del Sevilla e quella del Porto. Ai Blancos è andata malissimo, perché - incassando una sconfitta - ora è possibile che il Barça si rianimi, si riaccenda, si ricompatti. Sulla carta, il distacco tra le due può essere di quattro punti (il Real ha ancora un match da recuperare: il suo ritardo è dovuto alle amichevoli giocate in Giappone  a metà dicembre e 'spacciate' per coppa del mondo riservata alle squadre di club), ma in classifica, per ora, è rimasto di un punto. E anche l'Atleti può ripensare alla Liga con qualche minimo appetito, sicché la sfida del week-end tra Colchoneros e Azulgrana, al Manzanarre, si prospetta davvero bollente. A illustrare la tarde valenciana, una prodezza di Zaza, che non sarà mai un attaccante normale. Mai giocate banali le sue: nel bene, e nel male. Decisive (nel bene e nel male) in partite spesso importanti.

Torniamo alla Champions. Non c'era grande speranza di vedere bel calcio, nelle sfide di andata in cartellone a Siviglia e Oporto. E infatti ci si è divertiti pochissimo. Le Foxes hanno tenuto botta in maniera onorevole, senza neppure organizzare quel gran catenaccio, uscendo più che vive dal Sánchez Pizjuán, ma gli uomini di Sampaoli hanno giocato un match davvero confuso e deludente. Il leggendario Vardy ha fatto in tempo a scrivere il suo nome nella storia della competizione, l'ex sampdoriano Correa ha preteso di calciare un penalty che si era procurato e come spesso capita in questi casi l'ha telefonato a Schmeichel. Jovetic l'ha poi messo in condizioni di redimersi, ed era il due a zero. Ma poi, appunto, Vardy ha permesso alla gente di Leicester di sciamare cantando per le strade di Sevilla, e quella che si giocherà in Inghilterra è una delle poche partite di possibile significato agonistico tra quelle in tabellone per il ritorno degli ottavi.

"Bel numero, Jojo, ma non siamo al circo", fa notare Wes Morgan

Nostra Signora, dal canto suo, ha espugnato il Dragão con facilità irrisoria. Prestazione tuttavia non giudicabile, poiché la superiorità numerica goduta per due terzi di partita non esalta più di tanto il risultato e una qualificazione che pareva già sulla carta agevole e che, ora, è palesemente scontata. Ai lusitani era lecito credere di poter impantanare gli avversari, usando astuzie tattiche, accortezza difensiva, palleggio lento. Ma occorrono appunto giocatori astuti, e il povero Alex Telles certamente appartiene a un'altra categoria. Cos'altro dire? Nulla. Anzi, sì. La regìa ha più volte inquadrato bella gente in tribuna, gente che non paga mai il biglietto. Cercando di immortalare così la serata di Leonardo Bonucci, escluso per aver commesso nefandezze che nessuno realmente ha capito o conosce, con eccezione di lui medesimo e del suo (ancora per poco) allenatore. Una sfinge. Lo si è visto arrivare con una bandiera del Porto, forse acquistata al mercatino fuori dello stadio (se c'è); poi lo si è visto cambiare di posto, e piazzarsi su uno sgabellone modello bar da stazione ferroviaria o aeroportuale; poi lo si è visto in piedi (sempre lì, ma qualcuno gli ha sottratto lo sgabello), poi parlottante con Nedved. Senza mai cambiare espressione. Un'espressione da animo incupito e irritato più che in preda a malinconia e pentimento. 

Momenti tristi

Il bello, tutto il bello del gioco (errori compresi) si è visto nella partita di martedì all'Etihad (mentre a Leverkusen l'Atletico ha facilmente domato un dimesso Bayer, ma senza incantare). Una giostra infernale, una partita tirata a ritmi che raramente si vedono. Il Pep l'ha sfangata, i suoi hanno confezionato una bella rimonta sul Monaco (dove tirano calci al pallone giovani pedatori di formidabile talento). Sta provando a giocarsi d'azzardo quel che resta della stagione con Yaya davanti alla perforabilissima difesa, e davanti a lui Silva e De Bruyne (centrocampisti offensivi, se mai ce ne sono due autenticamente definibili come tali), e sulla loro linea, larghissimi, Sterling e Sané. Colpisce l'inversione di posizione tra questi ultimi due, normalmente abituati a giocare sulla fascia opposta (Sterling a sinistra e Sané a destra). S'inizia forse la tendenza a invertire il trend degli esterni invertiti: sicché i medesimi vanno più in verticale, puntando il fondo piuttosto che accentrarsi rientrando sul piede preferito. Tre gol dei Citizens sono arrivati da lunghe fughe esterne (una di Sterling e una di Sané) e rapidissimi scambi centrali; due volte gli Sky blues sono andati in porta col pallone. 

Mai una squadra di Guardiola ha giocato alla velocità del City di quest'anno. I ritmi alti del gioco sono nota e riconosciuta (e apprezzata) prerogativa della Premier League; a modo suo, Pep vi si sta adattando, e c'è da credere che, se l'esperienza proseguirà, lascerà segni di grande bellezza.


Mans

18 febbraio 2017

Essere Conte: storia di una metamorfosi


Conte e il Bari: storia breve ma intensa
Il titolo non attiene alla rocambolesca trasformazione tricologica del sanguigno allenatore pugliese, ma al cambiamento che il suo gioco ha evidenziato nel corso delle stagioni. Ricordo di aver assistito con interesse crescente all'annata in cui Conte si è imposto all'attenzione generale, dopo un passaggio anonimo e polemico ad Arezzo: Bari, stagione di molta grazia 2008-2009. Un campionato cannibalizzato dai galletti, schierati con un 4-4-2 di stampo marcatamente offensivo, con le fasce laterali percorse forsennatamente, a connotare un gioco arrembante e spregiudicato; protagonista assoluto il fortissimo Guberti, esterno capace di giocate dirompenti con entrambi i piedi, una carriera parzialmente sprecata per errori e leggerezze duramente sanzionate dalla giustizia sportiva. Momenti di spettacolare leggerezza li regala Kamata, sgusciante laterale che viene utilizzato come arma a partita in corso. La fase offensiva è curatissima ma Conte impronta sempre le scelte iniziali ad un gioco d'attacco, con esterni dotati tecnicamente e terzini che si sovrappongono di continuo: il più noto è Parisi, con un passato a Messina. Barreto gioca una stagione mostruosa, segna con grande continuità, affiancato alcune volte dal dribblomane Kutuzov, anni prima comprato dal Milan nell'intervallo di una dimenticabile partita pomeridiana tra rossoneri e Bate Borisov, altre volte da Caputo, enfant du pays

Gaetano D'Agostino: un sinistro poetico
Nell'estate successiva emerge il carattere fumantino di Conte, allenatore a volte frettoloso nelle valutazioni: litiga con la proprietà, chiede a Matarrese investimenti, e di fronte al non del tutto imprevedibile rifiuto fa fagotto e lascia il Bari; gli subentra Ventura, che finisce a metà classifica. Teniamola da parte questa storia, si riproporrà qualche anno dopo nella famosa metafora del ristorante. Dopo la sfortunata e poco rilevante esperienza di Bergamo in A, culminata con l'esonero, ritroviamo Conte a Siena, dove centra una nuova promozione. Il budget messo a disposizione dall'emanazione calcistica del Monte dei Paschi è sostanzioso, e il tecnico lo sfrutta alla perfezione: il suo calcio ricalca quello di Bari, 4-4-2, o 4-2-4 che dir si voglia, di impronta molto offensiva: spesso si permette addirittura un fantasista sulla fascia, lo sfarfallante Brienza, in ciò ricordando una versione del Milan capelliano nella quale riuscivano a convivere Savicevic, Baggio e Boban. In mezzo al campo, affiancato dal fido Gazzi, giganteggia il sinistro di Gaetano D'Agostino, epigono dei registi classici del calcio di un tempo, mancino educato alla Liverani, alla Di Gennaro (quello del Cagliari, non quello di Bagnoli a Verona). Davanti i bomber sono Destro e Calaiò. È il trampolino per il lancio definitivo, ed anche la stagione successiva per Conte è a tinte bianconere, le più amate (da lui): la Juventus.

È qui che il calcio di Conte comincia a cambiare, e prende una direzione che tutt'ora segue, e che costituisce un limite che il pugliese dovrà superare se vorrà diventare un allenatore epocale, uno a cui intitolare qualche capitolo del libro sulla storia del calcio, e non solamente dei paragrafi. A Torino imposta una campagna acquisti improntata al suo modulo, il 4-4-2 offensivo, prendendo l'olandese Elia e spendendo parole di stima sul cavallone Krasic, zazzera alla Nedved e corsa velocissima, autore di qualche giocata mirabolante nella stagione precedente, culminata con il deludente settimo posto delneriano. L'arrivo di Pirlo a parametro zero sembra più digerito che auspicato. Gli stenti iniziali portano però Conte ad una correzione tattica che si rivelerà fondamentale per i successi della Juve, al netto di episodi discutibili che quell'anno svantaggiano il Milan e di un clima vagamente risarcitorio che si respira nel calcio italiano che cerca di lasciarsi alle spalle le macerie delle inchieste. Conte vara un 3-5-2 compattissimo, con i tre centrali difensivi che segneranno un importante segmento nella storia della serie A; ma è a centrocampo che si nota in maniera marcatissima la deviazione di Conte verso un calcio di maggiore pragmatismo, di attenzione "cholista" alla chiusura degli spazi, al soffocamento delle fonti di gioco avversarie, ad un italianissimo "primo non prenderle": Pirlo è il punto centrale di una gabbia protettiva di formidabili atleti, corridori instancabili che suppliscono la scarsa propensione alla fase difensiva del fuoriclasse di Brescia. Sulle fasce giocano quasi sempre due terzini, De Ceglie e Lichtsteiner, il reparto a 5 si completa con Marchisio e soprattutto con Vidal, il formidabile cileno, impressionante sradicatore di palloni ed efficace incursore.

Vidal brutalizza Ribery

Le alternative principali sulle fasce sono Pepe e Giaccherini, polmoni capienti e grande inclinazione al sacrificio. Pirlo passa da un sistema di gioco in cui era affiancato (esempio: 2002-2003) da poeti del calcio come Seedorf, Rui Costa e Rivaldo ad uno in cui vede sfrecciare intorno a sé atleti muscolari ed instancabili. Le varianti delle stagioni successive sono pochissime, in quella che segue arrivano altri due giocatori più apprezzabili tatticamente ed atleticamente che sul piano squisitamente tecnico: i due ex Udinese Asamoah ed Isla. La dirompente classe di Pogba viene centellinata in un ruolo da dodicesimo uomo, per poi beneficiare della titolarità negli undici solo a seguito dell'infortunio di Marchisio.

È nella terza stagione che questo nuovo corso contiano si dimostra a mio avviso un limite: il campionato è trionfale, la Juve macina 102 punti, vincendo in casa tutte le 19 partite. Davanti l'apache Tevez è immarcabile. Ma la Juve non riesce ad esportare questa strapotenza in Europa, e fallisce un girone di Champions non irresistibile, in cui sembra destinata quanto meno ad un agevole secondo posto dietro il Real e davanti a Galatasaray e Copenaghen; invece i bianconeri si presentano alla sfida pomeridiana sulla neve turca in una posizione scomoda, con soli 5 punti in cascina, costretti quanto meno a pareggiare. Non succede nulla in quella partita, solo una cosa, ma decisiva: Drogba "spizza" di nuca, Sneijder batte Buffon sul secondo palo. Una squadra capace di varcare i bastioni dei 100 punti in patria si ferma a 5, in 6 partite, in Champions. Non solo, ma spreca l'epocale occasione di giocare la finale di EL, il limbo delle terze, prevista allo Juventus Stadium: la sua corsa si ferma con il Benfica, che inchioda i torinesi ad un deludente 0-0 nonostante la superiorità numerica. Ed è infatti qua che la corsa di Conte alla panchina di un top club europeo rallenta.

La delusione dell'europeo francese
Il gioco di Conte, basato su un pressing a tutto campo finalizzato ad un rapidissimo recupero della palla poi giocata in velocità raggiungendo gli esterni e gli attaccanti con pochi tocchi, non supera i confini italiani, e subisce la bocciatura del palcoscenico europeo, dove prevalgono quasi sempre squadre che schierano molti giocatori offensivi e che tendono a controllare il gioco attraverso il possesso palla. Sono poche le eccezioni recenti, una sola quelle vincente: l'inguardabile Chelsea di Di Matteo che batte il Bayern ai rigori dopo un estenuante catenaccio. Anche la sua nazionale, ed il Chelsea che sta fagocitando la Premier, ricalcano le caratteristiche di questo Conte 2.0, oramai un italianista puro: grande compattezza, forza fisica, inesauribile corsa, scelte improntate ad una prevalenza della fase difensiva. Agli europei il 3-5-2 vede ancora una volta due terzini sulle fasce, i non entusiasmanti Darmian e De Sciglio, quest'ultimo ancora a zero reti in serie A nonostante una militanza già consistente, dato utile a capire la cifra tecnica del giocatore. In mezzo trovano spazio Parolo e Giaccherini, mentre il delizioso Bernardeschi fa da turista in panchina. Davanti spazio agli sgobboni Eder e Pellè, mentre l'emergente Belotti, reduce da un girone da 11 reti, è in vacanza così come il naturalizzato Vazquez, autore fino adesso di una stagione da leccarsi i baffi nel Siviglia di Sampaoli. I risultati non premiano più di tanto Conte, che batte bene Belgio e Spagna ma si ferma ai rigori contro una Germania non irresistibile, che viene poi spazzata via dalla Francia successivamente incapace di segnare un golletto al Portogallo, nonostante fosse paese ospitante. Contro la Germania Conte dà la palese sensazione di aspettare null'altro che i rigori, confidando nel talismano di tante battaglie (Buffon).

La Premier, nuovo terreno di conquista
Mentre in Europa quasi tutte le grandi giocano il 4-2-3-1 con un sacco di giocatori offensivi, il Chelsea di Conte si presenta come un imponente monolite dove la classe pura inizia a sgorgare solamente a partire dalla linea offensiva, una robetta da un paio di centinaia di milioni composta da Pedro, Diego Costa ed Hazard; il trequartista del Brasile, Willian, è ridotto al rango di riserva; il bestione belga Batshuayi, 40 milioni tondi, sta sul pino da inizio stagione. Il centrocampo, che Conte non tocca praticamente mai, vede da sinistra un terzino spostato a centrocampo come Alonso, lo scolastico Matic, ed a destra un attaccante dallo score realizzativo imbarazzante riciclato come esterno sgobbone alla Lichtsteiner; il reparto è completato dalla pietra miliare del Chelsea contiano, il francese Kanté, giocatore di capacità atletiche immisurabili, ubiquo, instancabile, inesauribile: non si ferma da due anni, e vince sempre, con il Leicester e con il Chelsea.

Conte aveva una slot da 40 milioni da spendere per un centrocampista: ha scelto lui, e questo a mio avviso fotografa perfettamente quello che è adesso l'approccio di questo allenatore al calcio. Pragmatismo, furente chiusura degli spazi e delle linee di passaggio avversarie, frenetico recupero della palla, e poi spazio al tridente di fuoriclasse. Fabregas è ridotto a rari spezzoni. Tutte le avversarie, brutalizzate in classifica, hanno schieramenti più votati al controllo della partita ed al calcio offensivo; ovviamente Guardiola, peraltro penalizzato dall'infortunio del giocatore chiave Gundogan, che ha fatto partite nel City con un avveniristico 4-1-4-1 piazzando sostanzialmente 4 attaccanti dietro Aguero o Gabriel Jesus: Sane, De Bruyne, David Silva, Nolito. Ma anche Mourinho, frettolosamente bollato come tecnico guardingo, spesso vara un 4-2-3-1 in cui Pogba gioca davanti alla difesa a supporto di quattro uomini offensivi, scelti tra Martial, Mkhitaryan, Mata, Rooney e Rashford, qualche metro dietro ad Ibra. Wenger, Klopp e Pochettino completano un parterre di allenatori che nei quartieri alti della Premier giocano un calcio votato all'attacco, con scelte nella linea mediana sempre direzionate a ridurre mediani muscolari ed a moltiplicare i piedi buoni. Ma vince Conte, come l'anno scorso vinse Ranieri.

Avere Kanté e giocare in dodici: la stessa cosa

Chi vince ha sempre ragione, ma a mio avviso l'allenatore pugliese, che a quasi 50 anni vanta un curriculum internazionale sostanzialmente nullo con due sole partecipazioni alla CL, per imporsi nelle coppe dovrà cambiare il suo calcio. Il suo cordialmente detestato rivale Allegri è già a 7 partecipazioni, ed ha raggiunto una finale con la squadra che Conte aveva frettolosamente lasciato lasciato nell'estate del 2014, scontento di una campagna acquisti non in grado a suo dire di permettere un salto di qualità europeo dopo la delusione turca: "non ci si può sedere ad un grande ristorante con 20 euro in tasca". Allegri smentisce clamorosamente questa dotta metafora e non solo si siede al ristorante, ma mangia quattro portate: accompagna la Juve alla finale dopo 13 anni. La sconfitta di Berlino con il Barcellona è netta nel gioco ma non così chiara nell'andamento della partita, in bilico fino al letale contropiede di Neymar nel finale. Allegri corregge la squadra di Conte: il furore agonistico si stempera, il pressing si attenua, il possesso palla aumenta, Vidal gioca come trequartista di un armonioso 4-3-1-2, il modulo del cuore di Allegri, recentemente però passato ad un 4-2-3-1 che vede Pjanic in regia accanto a Khedira ed un imponente batteria di attacco con Mandzukic, Dybala e Cuadrado a supportare Higuain: il guanto di sfida all'Europa.

Conte in questo momento è con Tuchel, Pochettino, Sarri e Sampaoli l'allenatore emergente più interessante d'Europa. Ma per alzare la coppa dalle grandi orecchie serve un cambiamento, altrimenti tra qualche anno potrebbe ancora ricordare la notte di Manchester del 2003 come il momento in cui l'ha sfiorata più vicino, colpendo la traversa e poi perdendo ai rigori nella notte di Sheva e Dida: ma faceva ancora il giocatore.

Dejan

16 febbraio 2017

Cadono le teste di ... serie

Fettine di Coppa: ottavi di CL (andata, prima settimana)


La caduta stupefacente e la stupefatta espressione di Leo
E così, dicono i più, il 14 febbraio 2017 (un martedì) potrebbe restare negli annali eupallici come il giorno nel quale cadde il mito del Barça. Separato da se stesso e dai suoi assi, anziani e logori (come Don Andrés), incerti sul proprio futuro (Messi), male supportati dai nuovi innesti, che non sembrano all'altezza del recente passato del club. Se l'analisi, oltre che roboante, sarà anche vera, lo sapremo a suo tempo. Lo stesso de profundis fu intonato nel 2013, quando i catalani vennero umiliati dal Bayern - ma erano le semifinali -: poi la squadra ritrovò stimoli e gioco, e in capo a due anni tornò a rivincere la coppa più prestigiosa.
Certo, i parigini hanno destato grande impressione. Travolgenti nelle loro folate, possenti in Rabiot e Matuidi, rabbiosi in Cavani. La dipartita del totem e indiscusso sovrano ha probabilmente - insieme all'arrivo dell'homo novus in panchina - messo in moto un lento cambiamento nel modo di stare in campo e di giocare che ora sembra dare i suoi frutti. La manovra ha più sbocchi, non uno solo e obbligato; e Cavani - pur come sempre predisposto a sacrificio e dispendiose (ancorché non necessariamente utili) corse e rincorse - è ora sottratto a una funzione meramente gregaria. Certo, il Barça dell'altra sera ha collaborato (altrimenti si dovrebbe parlare di una squadra-monstre), ma è impossibile non considerare adesso la truppa di Emery (di altissima qualità) alla pari delle altre grandi candidate al banchetto del Millennium fissato per i primi di giugno.

Che l'Arsenal sia una delle squadre più inaffidabili del Regno Unito è cosa risaputa, dunque il poker di reti incassate all'Allianz non desta il minimo stupore. Sono sempre lì, ma oltre non vanno mai, così in Premier come in Champions. Come se, arrivati ai nastri di partenza, il più fosse fatto. Un club ricchissimo, con un grande seguito, con un grande stadio, una grande storia, e risultati sportivi non all'altezza del fatturato e del blasone, spesso uscente con le ossa rotte dalle sfide con le pari grado (e pari - o quasi - fatturato) d'Europa. Che sia ora di cambiare rotta, è evidente. Dal canto suo, Carletto si gode queste serate. Sono le 'sue' serate, e con lui tutti dovranno fare i conti.

Kroos: ha appena ribaltato la partita
E il Napule? Ha fatto quello che ci si immaginava potesse fare. Provare a giocare, metterla sul piano del calcio, del palleggio, della tecnica, della velocità. E' stato un match abbastanza equilibrato, entrambe hanno costruito nitide occasioni, il Real le ha sfruttate meglio. Era annunciato un Real quasi dimesso, è parso invece piuttosto tonico. Una squadra che sembra migliorare, invecchiando. E anche Cristiano - forse ormai pago dei suoi infiniti record, forse stanco di pensare a un gol che non arriva da tempo per lui immemorabile - gioca molto più per la squadra che per se stesso. A rappresentare il nuovo Ronaldo, basterebbe il pallone di un possibile quattro a uno che ha dato a Marcelo, e che in passato avrebbe certamente tenuto per sé. Tra le due compagini c'è una lieve differenza sul piano tattico (entrambe sono ben riconoscibili come sistema di gioco, entrambe lo adoperano con efficacia), ce n'è molta su quello tecnico. Del resto, a Madrid malsopportano uno come Benzema, figuriamoci ... Purtroppo, infine, va registrata la pessima condizione di Koulibaly, in debito di fiato e di energia (colpa della coppa d'Africa, dicono), improvvisamente somigliante allo spaesato e sconcertante difensore centrale della prima stagione italiana; e va sottolineato che Reina saprà certamente esercitare una qualche leadership, sarà pure l'anima della squadra, ma tra i pali raramente compie miracoli. E su almeno due dei tre palloni insaccati dai Blancos forse non erano nemmeno necessari miracoli.

Il dato 'nuovo' fin qui offerto dagli ottavi è più che altro da annoverare tra le curiosità statistiche, dicendo poco e dipendendo dall'assurdità della formula e dall'andamento delle amichevoli che si giocano tra settembre e dicembre nella cosiddetta 'fase a gironi'. Le teste di serie, fin qui, cioè quelle che di diritto giocano la seconda partita del turno in casa perché vincitrici dei rispettivi gironcini, hanno tutte perso. Di stretta misura e con ampio margine di recupero, come il Dortmund; di goleada, come Arsenal e Barça; di quasi-goleada. come il Napoli. Non era mai successo. Anzi, era quasi sempre accaduto il contrario.

Mans

6 febbraio 2017

Dazi e misteri (e un po' di Napoli)


C'è qualcosa di più triste e ritrito, edito e riedito, noioso e inutile di una polemica arbitrale dopo un match tra Inter e Juventus? Probabilmente no, si va avanti così da dieci, venti, trent'anni, forse da sempre, anche quando la partita conta un emerito piffero o quasi, come ieri. Naturalmente a scatenarsi in recriminazioni (pre- e post-) sono i nerazzurri che, paventando i torti, regolarmente li attirano e li subiscono. Vanno allo Stadium già sapendo che ci saranno rigori non fischiati, espulsioni non decretate, falli di confusione e quant'altro, tutto sistematicamente a loro sfavore. Un dazio obbligatorio quando si visitano le terre di Nostra Signora. Ma, se vogliamo parlare di calcio, va detto che l'Inter è ancora l'Inter e non già l'Ambrosiana-Suning, cioè la corazzata epocale promessa dai proprietari disposti a investire nel club risorse pressoché illimitate. Va aggiunto che, nonostante una Juve sempre frenata dalle scarse e manifeste capacità di organizzare il gioco da parte del suo allenatore, l'Inter dalla Juve è ancora molto lontana, fosse solo per le qualità e l'esperienza dei giocatori. Con questi giocatori, la Juventus potrebbe tranquillamente vincere la Champions League, in un'annata che vede le solite quattro (le tre spagnole più il Bayern) non particolarmente scintillanti, in fase forse di riflusso, in attesa forse di aprire nuovi cicli, di nuovi giocatori, di nuovi assetti. Potrebbe tranquillamente farcela, ma Allegri è una variabile da non trascurare. Negativa, s'intende. Vedremo.

La deprimente domenica milanese era stata sontuosamente aperta dal Milan, arrivato all'ennesima sconfitta consecutiva, causata più che dalla forza dell'avversario (una Samp tutto sommato mesta e modesta) dalla propria impotenza, ben simboleggiata dalla costante presenza al centro dell'attacco di un colombiano svogliato, monopede, declinante in tutti i fondamentali, compresi quello atletico e quello meno misurabile che in una punta costituisce la sintesi di intelligenza e intuito e che è alto e tipico delle punte di valore. Se si pensa che il sostituto del colombiano è uno che ha perforato solo le già retrocesse, si capirà quanto arduo sia per questa squadra, orfana di Bonaventura e con un Suso vicino all'asfissia agonistica, produrre occasioni e formalizzarle sul tabellino. Con l'ulteriore zavorra di una non-società e di un non-mercato, nell'attesa di una svolta dai contorni per ora insondabili e inconoscibili. Una situazione pazzesca, che si commenta da sé e giustifica ogni tipo di dicerìa.

Brilla, a domeniche alterne, il solito Napoli di Sarri, unica compagnia di calcio gradevole (e spesso efficace) di scena oggi sui campi italiani. Cosa impedisce ai partenopei di competere con la Juve? Difficile da capire. L'impianto di gioco è superiore, la qualità dei singoli non di parecchio inferiore. Forse c'è una minore 'cattiveria', minore esperienza, minore capacità di concentrazione nei momenti topici, minore capacità di resistere alla pressione; minore abitudine a vincere. Non poco, si dirà. Certamente, al Napoli non manca Higuain, sostituito come meglio non si potrebbe dal sorprendente Mertens, giocatore forse sottovalutato o forse semplicemente maturato in età più tarda rispetto ai fenomeni come tali universalmente riconosciuti. Un centravanti vero, non il solito 'falso nueve', che scatta e riscatta dettando traiettorie e passaggi, spesso imprevedibile nei movimenti e nelle soluzioni che offre. Personalmente, non vedo l'ora di assistere alla sfida degli ottavi di coppa tra Napoli e Real. Promette spettacolo e (speriamo) sorprese.

Stancamente come il nostro, si trascinano anche gli altri campionati, soprattutto quello considerato più importante, e cioè e ovviamente la Premier League. Già vinta dal Chelsea, si direbbe. Una squadra morta e risorta dalle proprie ceneri più di una volta. Se c'è una sfida terribile per un allenatore, è arrivare sulla panchina precedentemente scaldata dallo sfasciacarrozze di Setubal, e sappiamo bene perché. Conte ha già messo a debita distanza i più celebrati santoni del calcio recente (manca solo Carletto) tutti convenuti nell'isola, e non essendo impegnato in Europa dovrebbe arrivare in porto ormai per semplice inerzia. Tristemente, invece, il magico Leicester di qualche mese fa è tornato a frequentare le zone che era solito frequentare fino alla stagione scorsa, cioè i bassifondi della classifica, là dove si lotta punto su punto per evitare la relegazione. E ci si domanda cosa sia più misterioso: questo potenzialmente tragico ridimensionamento o l'imprevedibile gloriosa cavalcata di un anno fa?

Mans