29 maggio 2017

E' come se il calcio si fosse (temporaneamente) congedato da se stesso



Premessa necessaria: non sono romanista. Non sono nemmeno un 'tifoso', ovvero un fanatico, ovvero uno che vede solo la propria squadra e perciò (in automatico) detesta le altre e ritiene immondi i giocatori altrui perché propri nemici o avversari. Detto ciò, aggiungo che il mio sarà un discorso molto infantile. Programmaticamente infantile.

Ho le mie preferenze, ma non esclusive. Stravedevo per Rivera, da bambino, ma anche per Riva; da adolescente impazzivo per Crujff. Pelé si poteva adocchiare di rado, l'ho visto soprattutto nel 1970 e mi sembrava un anziano fuoriclasse di superiorità così evidente che il pallone obbediva al suo pensiero, andando dove voleva lui anche senza transitare fra i suoi piedi. Poi ci furono anni senza giocatori così fantastici, finché non arrivò Maradona. Ma a me, per dire, piaceva di più il modo di giocare di Platini, forse perché mi sembrava più 'uomo-squadra'. Anche il Diego era spaziale, intendiamoci: ma troppo malandrino per i miei gusti, e (per dire) Pelé non lo era, o almeno io non credevo lo fosse. Maradona mi stupiva, certo: ma non mi emozionava profondamente. E - ripeto - con questo nulla ha a che fare la preferenza per una squadra o per non so cos'altro. Quindi mi feci queste coppie: Cruijff sta a Pelé e a Platini come Maradona a Baggio. Sì, a Baggio. Un altro non-uomo-squadra, lampi improvvisi e accecanti, protratte assenze. Ma era impossibile non volergli bene. Oggi ammiro Messi, certo, molto meno Cristiano Ronaldo, e poi certo, il precedente Ronaldo, il brasiliano, era spaventoso (e chi aveva mai visto un centravanti così?), ma gli infortuni lo trasformarono rapidamente in un giocatore diverso, non vorrei dire normale (anzi) ma certo non più in grado di travolgere a cento all'ora gli omini disposti sul campo a difendere lo spazio dalle sue barbare incursioni.

Ho il rimpianto di non aver visto dal vivo (o in documentazione filmata bastevole a farsi un'idea) il nostro Meazza, il grande Alfrédo, il colonnello ungherese (anche se, degli ultimi due, materiale sufficiente sussiste). Ricordo che Eusébio mi fece una grande impressione al mondiale inglese, ma furono solo quattro o cinque partite, poi sparì dal mio radar. 

Tra i nostri, negli ultimi vent'anni, tolto Baggio, tolto Del Piero (non mi colpiva particolarmente), tolto Pirlo, tolti i grandi difensori (va da sé), mi sono emozionato a fondo per un solo giocatore. Sì, uno solo. Quello che ieri ha appeso le scarpe al chiodo. 

Il romano, il romanista. Il Capitano. Il simbolo di una città in cui non sono nato, nella quale ho vissuto per un po', è vero, ma prima che lui iniziasse a frequentare i campi della Serie A. Il Capitano di una squadra che non è la mia, né mai lo sarà, ma che talvolta - in determinate situazioni - lo è stata, estemporaneamente, magari per una sola sera, per un solo pomeriggio. In generale, 'tifavo' per lui. Ho guardato la Roma sempre o quasi sempre, per meglio dire ho guardato le partite della Roma quando mi è stato possibile soprattutto per lui. Anzi: solo per lui. 

E in innumerevoli circostanze, in chiacchierate sul calcio con amici più o meno cari, quando tutto si è ormai detto e inevitabilmente si finisce col voler riassumere la discussione in una classifica (quali sono stati i giocatori più grandi nella storia del calcio? e tra gli italiani? chi metti per primo, per secondo, per terzo?), io ho sempre detto che lui, in quella classifica, ce lo metto, non dico primo o secondo o terzo. Lui, tra quelli che reputo essere le 'ragioni' della mia perdurante passione per il football, indubbiamente c'è. Per me c'è, eccome. "Ma figuriamoci, uno che ha vinto così poco. Che ha giocato solo in quella squadra. Lui, il viziato che ha avuto paura di andarsene perché meglio essere imperatori a casa proprio che signori nessuno o quasi in casa altrui". Discorsi così, risposte così.

Inutile spiegare. Ciascuno vive il football a proprio modo. Oggi, per esempio, non perdo (se posso) le partite del Napoli, anche se nel Napoli non c'è nessun giocatore che mi faccia davvero impazzire. Mi piace la musica, però. Mi piace vedere la squadra muoversi in quel modo, giocatori e pallone sempre in movimento, geometrie rapide, verticalizzazioni improvvise, e quel minimo d'improvvisazione che rende palese la differenza tra il Napoli di Sarri e la Dinamo di Lobanovski.

Ma torniamo al tizio di cui stavo parlando. Ha smesso di giocare, del resto si capiva che non era più in grado di tenere il ritmo. La sensibilità, il tocco sono sempre gli stessi: la rapidità nell'esecuzione è scemata. L'efficienza del suo gioco, ormai, ai minimi termini. Penso che il suo allenatore abbia fatto bene a centellinarlo, quest'anno. L'allenatore deve pensare alla classifica, e la classifica gli ha dato ragione. 

Ha smesso di giocare. Ieri all'Olimpico tanti erano in lacrime. Non sono romano o romanista, ma li capisco benissimo. Sono triste anch'io. Perché l'idea di non rivederlo più in campo mi rattrista. Perché è stato uno dei miei campioni preferiti, e sicuramente il preferito degli ultimi (perlomeno) quindici anni. Perché? Perché gli ho visto fare di tutto, in modi sempre diversi e inattesi. Cose che (è un mio parere) nessun altro è stato capace di produrre con uguale competenza e varietà. Cose da iperspecialisti, realizzate da uno che è nato come ala, divenuto poi trequartista, regista avanzato, 'falso nueve', mezzala. Tra qualche anno sarà difficile rispondere alla domanda: "ma dove giocava? in che ruolo?" I gol? In fondo i gol dicono poco. Ma sono stati tantissimi, alla fine se si guardano le statistiche ci si dovrebbe sorprendere. E le giocate decisive? Sono quelle che preferisco. Le aperture di prima, mettendo il pallone oltre la difesa sui piedi di un compagno in corsa distante cinquanta metri da lui. Gesti ripetuti, con assoluta nonchalance. Consiglierei di andare a cercare, tra le centinaia e centinaia di file video che lo riguardano, quelli che omettono i gol, "i dieci gol più belli", "i primi cento gol" e roba del genere; e soffermarsi su quelli che hanno raccolto materiale a sufficienza per capire il modo in cui lui ha giocato per la squadra, e non per se stesso. Risolvendo situazioni complicate. Indicando pertugi dove sembrava non ce ne fossero. Eludendo il pressing degli avversari con due mosse - una finta e un colpo di tacco. Un repertorio che qualcuno, prima o poi, catalogherà.

Questo giocatore non ha vinto tonnellate di palloni d'oro e non ha la bacheca infestata da Champions League o da Coppe che dir si voglia. Ha vinto pochissimo, è uno più da secondi posti che da gradino più alto del podio. Ha avuto anche sfortuna. Ricordo un giorno (doveva essere prima del mondiale del 2006) in cui mostrò alle telecamere come fossero ridotte le sue caviglie. Ah, quelle sono caviglie? mi chiedevo. Era difficile crederci. Però, in effetti, effettivamente, le caviglie stanno di solito esattamente lì dove lui ora indica. Va bene, è un professionista, pensavo, ma mi domandavo anche come fosse possibile che sua madre gli permettesse ancora di giocare a pallone. Era il 2006, sì. Stava disputando una stagione spaziale. C'erano i mondiali, e lui ci arrivò fuori allenamento, appena uscito da una convalescenza probabilmente frettolosa. Non era lui. Era un lui dimezzato. Anzi, molto più che dimezzato. Riuscì ugualmente a lasciare qualche segno importante del suo passaggio in quel mondiale che l'Italia inopinatamente vinse; ma poi la critica premiò Fabio Cannavaro come simbolo (e capitano) della squadra campione del mondo. Non capisco, pensavo. Anzi, non capiscono. Pazienza.

Resterò sempre della mia idea. Lui è stato un genio assoluto. Uno dei più assoluti tra quelli che ho conosciuto. Mi ha regalato emozioni, tantissime. Inebrianti. Mi piacerebbe che questa grandezza gli fosse riconosciuta da tutti, non solo da romani romanisti. Spero che, col tempo, questo riconoscimento arrivi. So che sarà difficile. Tutti i nostri grandi campioni, chi per un motivo chi per un altro, non hanno mai goduto dell'unanimità nel giudizio. Con la sola eccezione, forse, di Mazzola padre. L'orrore e la pietà, in quel caso, resero superfluo ogni discorso critico, anche in prospettiva.

Naturalmente ho parlato di Francesco Totti, lo aggiungo anche se non ce n'è alcun bisogno. Ha abbandonato la scena tra le lacrime sue e dei suoi sudditi. A Roma chissà quando nascerà un altro così. Ma per quel che mi riguarda il discorso non vale solo per Roma. E' un discorso generale. Guardo i giovani campioncini, già ipervalutati, che si sono affacciati in questi ultimi tempi sui campi della Serie A, e che rappresenteranno il paese indossando la maglia azzurra nel prossimo futuro. Sono bravi? Forse. Bravini, magari. Tra di loro, però, non vedo nessuno che abbia un centesimo del talento di Francesco Totti. Che ieri ha dato l'addio al calcio. Il calcio seppellisce sempre i suoi 'grandi' mentre altri ne sta generando all'insaputa di tutti. In questa ignoranza del futuro, mi dico che ieri è stato come se il calcio si fosse momentaneamente congedato da se stesso.

Mans

22 maggio 2017

Ove si narra di come non sia sempre vero (anzi) che vince il campionato la squadra che subisce meno gol

Cartoline di stagione: 2016-17, considerazioni finali

La stagione volge al termine, anche se restano in agenda appuntamenti di rilievo: le finali delle due coppe, l'europeo Under 21 e alcuni turni dei gironi di qualificazione al mondiale. Ma i tornei nazionali, gli scudetti, i piatti d'oro e d'argento, almeno per quel riguarda i paesi calcisticamente più rilevanti, sono ormai assegnati. Qua e là, ieri o l'altro ieri è calato il sipario. Ci sono stati verdetti a sorpresa? Uno solo davvero clamoroso: quello che vede il Monaco svettare nella Ligue 1 a dispetto del colosso parigino. Inimmaginabile, impronosticabile. Un'impresa storica, che mette temporaneamente fine all'egemonia parigina, durata quattro anni, e dunque arenatasi ben prima di riuscire a minacciare seriamente la sequenza dell'Olympique Lyonnais (sette titoli consecutivi, dal 2002 al 2008).

Altri esiti hanno premiato club reduci da stagioni deludenti. La Premier League, per esempio, sebbene non si possa certo dire che il primo posto del Chelsea costituisca un risultato inatteso. Ma penso soprattutto al Feyenoord, vittorioso in Eredivisie dopo quasi vent'anni; e anche allo Spartak Mosca, cui il titolo mancava da ormai tre lustri. 

Massimo Carrera: nella storia dello Spartak ora c'è anche lui

Tra i tornei considerati di minor prestigio, da sottolineare la strenua volata della gloriosa Honved, che viaggia appaiata al Videoton quando mancano solo due partite alla fine - speriamo di anon averli 'gufati'. Inutile poi rimarcare il perdurante dominio del Celtic nella 'liga scozzese' e quello del Basilea nella 'Superlega' elvetica: non hanno alternative, rispettivamente, da sei e da otto anni.

In Italia, la Juventus eguaglia il Celtic e batte ogni record nazionale. Nessun club si era mai laureato campione d'Italia per sei stagioni consecutive. Nemmeno in epoca pionieristica. Del resto, nessuno si sarebbe sognato di non considerare ovvio questo lieto fine bianconero: una signoria che si perpetua anche 'depredando' in estate le risorse (in senso tecnico, cioè in giocatori) dei signorotti più ambiziosi. E che approfitta del declino protratto e depresso che vive il calcio milanese, ormai affidato a (non si sa quanto capienti e/o sapienti) portafogli ed eminenze grige cinesi o pseudo-cinesi.

Filosofia antica del calcio italico
Tutto questo è banale e scontato. Costituisce solo una premessa al tema centrale del ragionamento che volevo proporre. In Italia, da tempo, la critica professionale indica nel rendimento difensivo delle squadre premessa necessaria ai loro successi. 'Primo non prenderle' è frase tra le più ricorrenti nel lessico pedatorio nostrano, retaggio di un'epoca (anche più di una) nella quale il catenaccio era (o era considerato) la nostra risorsa prevalente, il nostro modo più efficace per sopravvivere nel calcio a fronte di paesi e di squadre più attrezzati sul piano atletico (questo è sicuro) e talora anche su quello strettamente tecnico. Prendere pochi gol, in un torneo che negli ultimi quarant'anni è passato dall'essere lungo solo trenta partite al durarne otto in più (in sostanza, due mesi scarsi di ulteriore colluttazione agonistica), è sempre stato il sicuro viatico per lo scudetto - è quel che solitamente si afferma. Quella che finisce in testa alla classifica è da noi, quasi sempre (dicono), quella che avrà incassato complessivamente il minor numero di reti. Di qui - altro luogo comune emancipato a verità indiscutibile - l'idea che la squadra si costruisca dalla difesa. La difesa - il reparto, e anche in generale la capacità della squadra di difendersi, di proteggere la propria area, di 'concedere poco' - è la 'base' indispensabile, irrinunciabile per primeggiare. Senza solidità difensiva, ogni ambizione è destinata a dissolversi; i sogni zemaniani sono rimasti sempre tali proprio perché lui si è sempre preoccupato (ovunque allenasse) di insegnare ad attaccare e non a difendere. Una squadra 'zemaniana' produce (di default) spettacolo, ma nell'albo d'oro il suo nome non è destinato a fare capolino. Il che indispettisce i presidenti e, alla lunga, anche i tifosi.

Ma è vero, tutto questo? Sono considerazioni confermate dai numeri e dalla storia del nostro campionato? Beh, sì: è vero se guardiamo alla sua epoca più recente. Da dieci campionati, finisce in testa la squadra con il numero più basso nella casella dei gol al passivo. Ma prima?

Difesa a oltranza

Prima non era così. Anzi. Nei 76 tornei regolarmente disputati a partire dalla istituzione del girone unico (1929-30) fino al 2005-06 compreso, solo 34 volte ha primeggiato (numeri alla mano)  l'XI con la difesa più ermetica. E, se consideriamo i tre decenni compresi tra il 1950 e il 1980, cioè l'età d'oro del catenaccio all'italiana, si contano ben 17 casi in cui le squadre che si cucirono lo scudetto sulla maglia non poterono vantare il primato della porta meno battuta.

Forse ce ne sarebbe abbastanza per iniziare a ripensare la storia del nostro calcio fuori dai canoni critici consolidati, e resi perenni dal prestigio di alcuni eminenti (e grandissimi) scrittori e storici di cose del pallone. L'ultimo decennio, in effetti, costituisce l'eccezione furibonda a una regola che non era sempre valida, e che marca - oggi - una differenza tra il nostro e gli altri campionati. Già: perché il Chelsea campione d'Inghilterra ha subito più reti del Tottenham, il Real ne ha incassati più dell'Atlético Madrid, lo Spartak più del CSKA, il Monaco più del PSG, e il Feyenoord più sia dell'Ajax sia del PSV.

Come la mettiamo?

Mans

15 maggio 2017

La travagliata stagione rossonera

Addio Milan!

Non è poi passato così tanto tempo da quella sera a Madrid in cui ho provato a spiegare all'amico Sven cosa fosse successo al Milan. La stessa sera in cui ho realizzato che non è semplice raccontare una storia che risulta incomprensibile anche per chi ne ha vissuto ogni singolo atto. Eppure la scomparsa dei colori rossoneri dai radar degli spettatori europei è un qualcosa di certificato. Una condizione acclarata che non dovrebbe stupire più di tanto alla luce di una mera verifica sul campo. 

La sfida con l’Atalanta di sabato scorso, al netto delle sviste arbitrali, ha certificato la sconcertante mediocrità in cui si dibatte il club. Una condizione che in realtà era ben chiara sin dal principio di questa stagione. Era sicuramente evidente a Montella, che si è ben guardato dal fare pronostici oltremodo ottimistici, anche quando la classifica non era chiara espressione dei valori tecnici e i tifosi potevano augurarsi una stagione al di sopra delle aspettative iniziali. Ma a cosa poteva ambire questo Milan? 

Predicatore nel deserto: 
Jesús Joaquín Fernández Sáez de la Torre, detto Suso
Probabilmente nel sesto posto provvisorio dei rossoneri ci sono tanti demeriti altrui (l’annata fallimentare dell’Inter e la profonda discontinuità della Fiorentina), ma la squadra ha avuto il merito di riprendere partite sostanzialmente compromesse da primi tempi fatiscenti e di rimanere, nonostante tutto, sul pezzo. Andando ad analizzare i valori del gruppo, l’ultima compagine costruita da Adriano Galliani è un mix di lacune tecniche e defezioni tattiche. Una équipe messa in piedi con prestiti secchi (obbligati da una situazione societaria protrattasi ben oltre il comprensibile con contorni farseschi) e che non è riuscita a trovare alcuna certezza dagli acquisti dell’estate 2016. Lapadula e Gustavo Gomez (quasi 20 milioni in due) sono apparsi spesso inadeguati alla categoria, mentre Sosa e Mati Fernandez non sono più in grado di reggere a livello fisico il nostro campionato (eppure sul primo è stato fatto un investimento importante). Paletta, arcigno e solido nelle prime fasi del campionato, ora insegue con tenacia il record di espulsioni di Apolloni mentre Kucka, sempre amato dalla curva per impegno e dedizione, pare ben avviato sul viale del tramonto. L’infortunio terribile di Bonaventura ha poi lasciato sguarnita un’intera zona di campo, coperta con discontinuità dall’indecifrabile Deulofeu che, sotto la guida di Montella, ha saputo mostrare una dedizione tattica mai offerta prima. A tutto questo si sommano le assenze alterne di Suso, predicatore solitario nell’arido deserto milanista, e Romagnoli, bravo ma ancora incompiuto.

Una stagione travagliata e arida dal punto di vista del gioco in cui però Montella è stato capace di dare al gruppo valori caratteriali non comuni. Il demerito principale dell’allenatore campano è probabilmente quello di aver abbandonato un certo tipo di calcio speculativo per sposare una filosofia di gioco più spregiudicata che ha esposto la squadra ad ingiustificabili figuracce contro Napoli e Roma a San Siro, solo per citarne alcune. Eppure non dovrebbe tanto stupire il girone di ritorno - che si attesterà presumibilmente intorno ai 25 punti, perfettamente in linea col valore tecnico della rosa -, quanto il girone di andata, chiuso alla surreale quota di 37 punti. A questo risultato va aggiunta la conquista insperata della supercoppa, un vero e proprio miracolo sportivo raggiunto attraverso un atteggiamento coraggioso con cui il Milan ha saputo mettere alle corde lo squadrone che nelle prossime settimane si giocherà il triplete. Pensare che questa rosa avrebbe potuto fare di più ha un retrogusto acre che profuma di malafede. Al contrario: sarebbe stato lecito aspettarsi molto meno. 

Vincenzo e la supercoppa

Le ultime settimane hanno messo in discussione la permanenza di Montella, che si vorrebbe condizionata al raggiungimento del sesto posto, l’ultimo disponibile per l’accesso ai preliminari di Europa League. È inevitabile che il destino di ogni allenatore dipenda dai risultati, ma la situazione della società negli ultimi 9 mesi (e non solo) costituisce sicuramente una di quelle eccezioni da evidenziare con un grosso asterisco. Probabilmente non c’è un solo allenatore di prima fascia che oggi accetterebbe il rischio di allenare e rifondare il Milan, in un clima ancora ambiguo e poco decifrabile. Ci saranno altre occasioni per mandare (eventualmente) Montella al patibolo. Ora dovrebbe prevalere un certo pragmatismo.

Oslo

11 maggio 2017

Elogio della calma

Fettine di Coppa: semifinali (ritorno)

In mezzo a tante differenze c'è una cosa che rende simili i due finalisti di Cardiff, Coppa Campioni 2017. I percorsi sono diametralmente opposti: il toscano, in coerenza con una carriera da trequartista periferico, ha accumulato una lunga gavetta formativa in provincia, comprensiva persino di un esonero a Grosseto, per mano del presidente Camilli, categoria vulcanici dall'esonero facile, modello Zamparini; Zizou, meraviglioso dieci moderno, 'elefante con passi da ballerina' (Jorge Valdano), ha saltato la gavetta a piè pari, catapultato da Florentino Perez direttamente sulla panchina del club di massimo prestigio al mondo, dopo un breve apprendistato. 

Ciò che accomuna questi due ragazzi magri, elegantemente strizzati in completi molto slim, è la calma, la gestione serena dei momenti più caldi delle partite; la maniera in cui il Real è riemerso dall'apnea dei primi selvaggi minuti nel morituro Vicente Calderòn è il frutto diretto dell'approccio del suo allenatore, consapevole di allenare dei fenomeni, a cui spiega semplicemente che la tecnica alla fine prevarrà; l'Atletico si ritrae, il Real ricomincia a far girare palla come niente fosse, Benzema e Isco si limitano a sigillare l'inevitabile. 



Allegri viaggia a pochi passi dalla leggenda di un triplete con un ineffabile sorriso sul volto: sembra non avere troppa fretta di chiudere l'ordinaria amministrazione in patria, forse per non frapporre troppe settimane prive di agonismo tra qui e la notte gallese; al triplice fischio contro il Monaco sorride, di nuovo, ed imbocca velocemente il tunnel degli spogliatoi, quasi a spargere normalità su un risultato che proprio normale non è: due finali in tre anni, in una fase di estrema periferia del calcio italiano, fatturato alle stelle. 

Dopo gli stenti infiniti e i milioni dilapidati per agguantare la decima coppa merengue, Zizou con la nonchalance dei predestinati ha portato a casa l'undicesima, e va a Cardiff per la seconda di fila, un risultato gigantesco mai più raggiunto dai fasti sacchiani del Milan. Sta vincendo la Liga, ed è uscito dalla leggendaria notte in cui Messi morse la giugulare del Bernabéu senza agitarsi più di tanto, senza subirne alcun trauma.



Allegri è passato indenne tra i sassi lanciati da tifosi frettolosi sul Suv che lo accompagnava a Vinovo nell'estate del 2014, quando Conte abbandonò la Juve, o viceversa, perché non accondiscendere alle sue rischieste equivalse a mostrargli l'uscio: nacque la celebre metafora del “ristorante”, che gli si è ritorta contro assurgendo a gag da cabaret radiofonico. Allegri ha sfruttato e corretto il lavoro del predecessore, e lo ha superato in tutto: trofei, percorso europeo, soldi incamerati. Zizou subentrò a Benitez, che pensava di dover rivoluzionare il Real, di imporre l'alchimia tattica dove la tecnica riluce di assoluta autarchia e va solamente incanalata, assecondata. 

Zizou ed Allegri sono allenatori fortunati, raddrizzano spesso qualche risultato negli ultimi minuti, quando tutto conta maledettamente di più: non urlano lungo la linea laterale, difficilmente un quarto uomo si sforzerà di ricondurli nel loro recinto, gli occhi restano ben saldi nelle orbite, nelle loro conferenze stampa non si adombrano nemici da distruggere, non si denunciano complotti da sventare, non si rivendicano risultati epici. Sono calmi, anche nel campo del futile: accettano placidamente il diradarsi delle chiome, ben lontani dagli egotici che si reinfoltiscono artificialmente, o che passano senza sosta da una testa imbrillantinata all'indietro ad un casco di stampo vagamente afro. A Cardiff sorrideranno entrambi, potete esserne certi: uno dei due un po' di più.

Dejan

4 maggio 2017

Verso la finale del Millennium


Fettine di Coppa: semifinali (andata)

Quando la primavera rigogliosa sboccia (o almeno dovrebbe) e arriva il tempo delle semifinali di Coppa, per chi ama il football è ora di gustare l'attesa e di sognare grandi partite. Otto sfide, quattro per ciascuna competizione, che promettono equilibrio, emozioni, forse sorprese. Distribuite in dieci giorni, dal martedì della prima settimana al giovedì di quella successiva. La speranza è sempre di arrivare alla seconda settimana con esiti in bilico, punteggi in fieri, partite come cantieri ancora aperti, potenziali capolavori la cui bellezza solo alla fine - riscorrendone immagini e istanti e la progressiva assunzione di forma e significato - potrà essere veramente ammirata e considerata degna (ma, se lo sarà, non vi sarà bisogno di ragionare molto)  di essere fissata nella memoria per un tempo più o meno lungo: quello che si saranno meritato.

Questa volta, inutile negarlo, un po' di delusione c'è. Con quanta 'eccitazione' potremo vivere le gare di ritorno delle semifinali di Champions League in programma allo Stadium (martedì prossimo) e al Manzanarre (mercoledì)? Poca, pochissima. La superiorità dei Blancos e della Juventus si è dispiegata senza considerevoli opposizioni nella prima partita; è parsa anzi più netta e limpida di quanto si potesse prevedere. E i severi risultati incisi sul registro ufficiale del torneo dalle due grandi d'Italia e di Spagna non potranno essere cancellati e ribaltati dalle loro contendenti se non a fronte di eventi davvero imprevedibili, illogici, irrazionali (che, è vero, qualche volta fanno pure capolino nel football).

I colchoneros non sfatano il tabù madridista nel derbi con platea continentale. Da quattro anni l'ordalia si rinnova. Simeone ci è andato vicino una volta ma, in Europa, contro i Blancos - chiunque li guidasse - non l'ha ancora spuntata. A differenza di quel che accade nelle competizioni domestiche. Qui, nel medesimo periodo, l'Atletico vanta una supremazia discreta: sei vittorie in quattordici partite (di Liga, di Copa, di Supercopa), quattro pareggi e altrettante sconfitte. Anni in cui il titolo non è mai andato al Real, che ha rastrellato in patria solo una Coppa del Re. Meno dei rivali. Ma il conto l'ha presentato nelle sfide infrasettimanali in diretta planetaria e nelle notti di Milano e di Lisbona. Da quando Mou è partito, le Merengues giocano queste partite con meno angoscia, Carletto gli ha regalato la forza dei nervi distesi, e ora Zizou li guida con il carisma del sorriso, dell'eleganza innata, della propria leggendaria statura nel calcio. La grandezza del club è (da sempre, ma oggi sembrerebbe ancora di più) soggiogante anche nei confronti delle potenze arbitrali. Chiedere lumi ai dirigenti del Bayern. Del Bayern, non del Silkeborg ...

Cristiano inizia la sua micidiale serata

Anche la Juventus è un dream-team, una raffinata collezione di galacticos non percepita come tale nel comune sentire. Ma gli innesti di quest'anno la dicono lunga. Per dare l'assalto alla coppa, Allegri è stato rifornito accuratamente. Con Dani Alves, venuto per giocare 'queste' partite e non certo quelle col Pescara o il Crotone. Con Pjanic e Higuain, gente di altissimo livello ancora affamata, capace di eguagliare per tecnica e peso i reparti delle concorrenti. Il pacchetto arretrato è (ancora oggi) di valore assoluto. Non ce n'è un altro così solido e affiatato, nel panorama mondiale. E c'è sapienza tattica, 'conoscenze' (direbbe Arrigo Sacchi), consapevolezza di essere arrivati al top. Due finali in tre anni parlano chiaro. La formula magica, il 4-2-3-1 varato qualche mese fa, è però un grande esperimento di catenaccio dissimulato, il rimedio escogitato per consentire a tutti i big di andare in campo, con un grande patto di collaborazione e assistenza reciproca. "Volete giocare tutti? D'accordo, ma dovete farvi il mazzo, correre il doppio e pensare soprattutto a difendere. Altrimenti rimetto Sturaro e Rincon". Questo dev'essere il discorso di alta strategia indovinato da Allegri dopo la partita di Firenze. E, da allora, vediamo Higuain (non solo il 'generosissimo' Mandzukic) frequentare zolle di campo su cui nella sua già lunga carriera non aveva mai sgambettato, tanto lontane sono dalla porta avversaria. Ma è gente di qualità. Molto pericolosa nelle ripartenze veloci. Anzi: letale.

Higuain conclude la sua letale serata

Dunque, a Cardiff le grandi di Spagna e d'Italia si ritroveranno per la loro seconda storica finale, che è poi la seconda in tre anni per entrambe (la terza in quattro per i Blancos). Sarà per il Real la quindicesima e la nona per la Juventus; dice la storia (anzi, l'albo d'oro) che le Merengues non steccano quasi mai l'acuto finale, cosa che invece (è risaputo) capita di frequente alla Juventus. 

Questa volta, se nessuna delle due avrà gravi problemi di organico o clamorosi scadimenti di forma, partiranno allineate. Con uguali chance. Due gruppi di campioni che hanno messo tacche in migliaia e migliaia di partite internazionali. Non sono dunque e ovviamente nel fiore della gioventù. Soprattutto quelli in maglia bianconera, la cui formazione scesa a giocherellare nel giardinetto monegasco vantava un'età media di 31 anni precisi precisi, più alta di oltre cinque anni rispetto a quella della truppa francese, e di quasi tre rispetto a quella calcolata nell'undici madridista che ha scientificamente raffreddato la brace cholista tra i canti del Bernabéu. Sarà difficile per entrambe sfruttare le minime debolezze dell'avversario. Potrebbe essere una finale lunga, interminabile. Bloccata. Dovessi individuare un duello decisivo, direi quello tra i due mattoidi terzini brasiliani ...

Un pronostico? Ci sarebbero analogie con situazioni del passato, per chi vuole fare esercizio tecnomantico o scaramantico sulla finale del Millennium (inteso come catino gallese). Per esempio, proprio nel '98 la Juventus si liberò del Monaco in semifinale, ma trovò poi sulla sua strada Predrag Mijatović (c'è sempre un Magath nel destino). Per esempio, la stessa Juventus potrebbe chiudere la fase degli scontri a eliminazione diretta senza incassare una sola rete, come fece l'Arsenal nel 2006. Performance notevoli, ma che furono anticamera della sconfitta, per la Juve nel '98 e poi per i Gunners (che si arresero alla lunga contro la nascente Philarmonica blaugrana, addestrata allora da Francolino Rijkaard). Non sembrano tuttavia configurarsi come maleficio guttmanniano, come indizio probabile di cicli vichiani. Perché allora, contro il Real, remano la statistica (nessuno ha saputo bissare un trionfo con questa formula) e la tradizionale osticità della Juve (più spesso uscita vittoriosa da una doppia sfida di coppa); anche se, nelle partite secche (la finale del '98, lo spareggio del '62), gli spagnoli hanno sempre prevalso. 

Intanto, nell'Europa più 'piccola', è tornata ieri sera a brillare la stella di una antica squadra: più che una squadra un simbolo, un patrimonio inestimabile del calcio europeo e mondiale. Una squadra di ragazzini terribili, che nello stadio intitolato a Johann Cruijff ha forse conquistato un bel pezzo di finale della coppa di minore prestigio. Il grande nume ha portato bene, non era scontato che i bambini facessero a pezzi l'Olympique Lyonnais. Sarebbe bello vederli in una finale inedita,  opposti a un altro club di antichissimo blasone, il Manchester United, nelle frescure di Solna, il 24 di maggio.

Mans