Fettine di Coppa: semifinali (ritorno)
In mezzo a tante differenze c'è una cosa che rende simili i due finalisti di Cardiff, Coppa Campioni 2017. I percorsi sono diametralmente opposti: il toscano, in coerenza con una carriera da trequartista periferico, ha accumulato una lunga gavetta formativa in provincia, comprensiva persino di un esonero a Grosseto, per mano del presidente Camilli, categoria vulcanici dall'esonero facile, modello Zamparini; Zizou, meraviglioso dieci moderno, 'elefante con passi da ballerina' (Jorge Valdano), ha saltato la gavetta a piè pari, catapultato da Florentino Perez direttamente sulla panchina del club di massimo prestigio al mondo, dopo un breve apprendistato.
Ciò che accomuna questi due ragazzi magri, elegantemente strizzati in completi molto slim, è la calma, la gestione serena dei momenti più caldi delle partite; la maniera in cui il Real è riemerso dall'apnea dei primi selvaggi minuti nel morituro Vicente Calderòn è il frutto diretto dell'approccio del suo allenatore, consapevole di allenare dei fenomeni, a cui spiega semplicemente che la tecnica alla fine prevarrà; l'Atletico si ritrae, il Real ricomincia a far girare palla come niente fosse, Benzema e Isco si limitano a sigillare l'inevitabile.
Allegri viaggia a pochi passi dalla leggenda di un triplete con un ineffabile sorriso sul volto: sembra non avere troppa fretta di chiudere l'ordinaria amministrazione in patria, forse per non frapporre troppe settimane prive di agonismo tra qui e la notte gallese; al triplice fischio contro il Monaco sorride, di nuovo, ed imbocca velocemente il tunnel degli spogliatoi, quasi a spargere normalità su un risultato che proprio normale non è: due finali in tre anni, in una fase di estrema periferia del calcio italiano, fatturato alle stelle.
Dopo gli stenti infiniti e i milioni dilapidati per agguantare la decima coppa merengue, Zizou con la nonchalance dei predestinati ha portato a casa l'undicesima, e va a Cardiff per la seconda di fila, un risultato gigantesco mai più raggiunto dai fasti sacchiani del Milan. Sta vincendo la Liga, ed è uscito dalla leggendaria notte in cui Messi morse la giugulare del Bernabéu senza agitarsi più di tanto, senza subirne alcun trauma.
Allegri è passato indenne tra i sassi lanciati da tifosi frettolosi sul Suv che lo accompagnava a Vinovo nell'estate del 2014, quando Conte abbandonò la Juve, o viceversa, perché non accondiscendere alle sue rischieste equivalse a mostrargli l'uscio: nacque la celebre metafora del “ristorante”, che gli si è ritorta contro assurgendo a gag da cabaret radiofonico. Allegri ha sfruttato e corretto il lavoro del predecessore, e lo ha superato in tutto: trofei, percorso europeo, soldi incamerati. Zizou subentrò a Benitez, che pensava di dover rivoluzionare il Real, di imporre l'alchimia tattica dove la tecnica riluce di assoluta autarchia e va solamente incanalata, assecondata.
Zizou ed Allegri sono allenatori fortunati, raddrizzano spesso qualche risultato negli ultimi minuti, quando tutto conta maledettamente di più: non urlano lungo la linea laterale, difficilmente un quarto uomo si sforzerà di ricondurli nel loro recinto, gli occhi restano ben saldi nelle orbite, nelle loro conferenze stampa non si adombrano nemici da distruggere, non si denunciano complotti da sventare, non si rivendicano risultati epici. Sono calmi, anche nel campo del futile: accettano placidamente il diradarsi delle chiome, ben lontani dagli egotici che si reinfoltiscono artificialmente, o che passano senza sosta da una testa imbrillantinata all'indietro ad un casco di stampo vagamente afro. A Cardiff sorrideranno entrambi, potete esserne certi: uno dei due un po' di più.
Dejan