Conte e il Bari: storia breve ma intensa |
Il titolo non attiene alla rocambolesca trasformazione tricologica del sanguigno allenatore pugliese, ma al cambiamento che il suo gioco ha evidenziato nel corso delle stagioni. Ricordo di aver assistito con interesse crescente all'annata in cui Conte si è imposto all'attenzione generale, dopo un passaggio anonimo e polemico ad Arezzo: Bari, stagione di molta grazia 2008-2009. Un campionato cannibalizzato dai galletti, schierati con un 4-4-2 di stampo marcatamente offensivo, con le fasce laterali percorse forsennatamente, a connotare un gioco arrembante e spregiudicato; protagonista assoluto il fortissimo Guberti, esterno capace di giocate dirompenti con entrambi i piedi, una carriera parzialmente sprecata per errori e leggerezze duramente sanzionate dalla giustizia sportiva. Momenti di spettacolare leggerezza li regala Kamata, sgusciante laterale che viene utilizzato come arma a partita in corso. La fase offensiva è curatissima ma Conte impronta sempre le scelte iniziali ad un gioco d'attacco, con esterni dotati tecnicamente e terzini che si sovrappongono di continuo: il più noto è Parisi, con un passato a Messina. Barreto gioca una stagione mostruosa, segna con grande continuità, affiancato alcune volte dal dribblomane Kutuzov, anni prima comprato dal Milan nell'intervallo di una dimenticabile partita pomeridiana tra rossoneri e Bate Borisov, altre volte da Caputo, enfant du pays.
Gaetano D'Agostino: un sinistro poetico |
È qui che il calcio di Conte comincia a cambiare, e prende una direzione che tutt'ora segue, e che costituisce un limite che il pugliese dovrà superare se vorrà diventare un allenatore epocale, uno a cui intitolare qualche capitolo del libro sulla storia del calcio, e non solamente dei paragrafi. A Torino imposta una campagna acquisti improntata al suo modulo, il 4-4-2 offensivo, prendendo l'olandese Elia e spendendo parole di stima sul cavallone Krasic, zazzera alla Nedved e corsa velocissima, autore di qualche giocata mirabolante nella stagione precedente, culminata con il deludente settimo posto delneriano. L'arrivo di Pirlo a parametro zero sembra più digerito che auspicato. Gli stenti iniziali portano però Conte ad una correzione tattica che si rivelerà fondamentale per i successi della Juve, al netto di episodi discutibili che quell'anno svantaggiano il Milan e di un clima vagamente risarcitorio che si respira nel calcio italiano che cerca di lasciarsi alle spalle le macerie delle inchieste. Conte vara un 3-5-2 compattissimo, con i tre centrali difensivi che segneranno un importante segmento nella storia della serie A; ma è a centrocampo che si nota in maniera marcatissima la deviazione di Conte verso un calcio di maggiore pragmatismo, di attenzione "cholista" alla chiusura degli spazi, al soffocamento delle fonti di gioco avversarie, ad un italianissimo "primo non prenderle": Pirlo è il punto centrale di una gabbia protettiva di formidabili atleti, corridori instancabili che suppliscono la scarsa propensione alla fase difensiva del fuoriclasse di Brescia. Sulle fasce giocano quasi sempre due terzini, De Ceglie e Lichtsteiner, il reparto a 5 si completa con Marchisio e soprattutto con Vidal, il formidabile cileno, impressionante sradicatore di palloni ed efficace incursore.
Vidal brutalizza Ribery
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Le alternative principali sulle fasce sono Pepe e Giaccherini, polmoni capienti e grande inclinazione al sacrificio. Pirlo passa da un sistema di gioco in cui era affiancato (esempio: 2002-2003) da poeti del calcio come Seedorf, Rui Costa e Rivaldo ad uno in cui vede sfrecciare intorno a sé atleti muscolari ed instancabili. Le varianti delle stagioni successive sono pochissime, in quella che segue arrivano altri due giocatori più apprezzabili tatticamente ed atleticamente che sul piano squisitamente tecnico: i due ex Udinese Asamoah ed Isla. La dirompente classe di Pogba viene centellinata in un ruolo da dodicesimo uomo, per poi beneficiare della titolarità negli undici solo a seguito dell'infortunio di Marchisio.
È nella terza stagione che questo nuovo corso contiano si dimostra a mio avviso un limite: il campionato è trionfale, la Juve macina 102 punti, vincendo in casa tutte le 19 partite. Davanti l'apache Tevez è immarcabile. Ma la Juve non riesce ad esportare questa strapotenza in Europa, e fallisce un girone di Champions non irresistibile, in cui sembra destinata quanto meno ad un agevole secondo posto dietro il Real e davanti a Galatasaray e Copenaghen; invece i bianconeri si presentano alla sfida pomeridiana sulla neve turca in una posizione scomoda, con soli 5 punti in cascina, costretti quanto meno a pareggiare. Non succede nulla in quella partita, solo una cosa, ma decisiva: Drogba "spizza" di nuca, Sneijder batte Buffon sul secondo palo. Una squadra capace di varcare i bastioni dei 100 punti in patria si ferma a 5, in 6 partite, in Champions. Non solo, ma spreca l'epocale occasione di giocare la finale di EL, il limbo delle terze, prevista allo Juventus Stadium: la sua corsa si ferma con il Benfica, che inchioda i torinesi ad un deludente 0-0 nonostante la superiorità numerica. Ed è infatti qua che la corsa di Conte alla panchina di un top club europeo rallenta.
La delusione dell'europeo francese |
La Premier, nuovo terreno di conquista |
Mentre in Europa quasi tutte le grandi giocano il 4-2-3-1 con un sacco di giocatori offensivi, il Chelsea di Conte si presenta come un imponente monolite dove la classe pura inizia a sgorgare solamente a partire dalla linea offensiva, una robetta da un paio di centinaia di milioni composta da Pedro, Diego Costa ed Hazard; il trequartista del Brasile, Willian, è ridotto al rango di riserva; il bestione belga Batshuayi, 40 milioni tondi, sta sul pino da inizio stagione. Il centrocampo, che Conte non tocca praticamente mai, vede da sinistra un terzino spostato a centrocampo come Alonso, lo scolastico Matic, ed a destra un attaccante dallo score realizzativo imbarazzante riciclato come esterno sgobbone alla Lichtsteiner; il reparto è completato dalla pietra miliare del Chelsea contiano, il francese Kanté, giocatore di capacità atletiche immisurabili, ubiquo, instancabile, inesauribile: non si ferma da due anni, e vince sempre, con il Leicester e con il Chelsea.
Conte aveva una slot da 40 milioni da spendere per un centrocampista: ha scelto lui, e questo a mio avviso fotografa perfettamente quello che è adesso l'approccio di questo allenatore al calcio. Pragmatismo, furente chiusura degli spazi e delle linee di passaggio avversarie, frenetico recupero della palla, e poi spazio al tridente di fuoriclasse. Fabregas è ridotto a rari spezzoni. Tutte le avversarie, brutalizzate in classifica, hanno schieramenti più votati al controllo della partita ed al calcio offensivo; ovviamente Guardiola, peraltro penalizzato dall'infortunio del giocatore chiave Gundogan, che ha fatto partite nel City con un avveniristico 4-1-4-1 piazzando sostanzialmente 4 attaccanti dietro Aguero o Gabriel Jesus: Sane, De Bruyne, David Silva, Nolito. Ma anche Mourinho, frettolosamente bollato come tecnico guardingo, spesso vara un 4-2-3-1 in cui Pogba gioca davanti alla difesa a supporto di quattro uomini offensivi, scelti tra Martial, Mkhitaryan, Mata, Rooney e Rashford, qualche metro dietro ad Ibra. Wenger, Klopp e Pochettino completano un parterre di allenatori che nei quartieri alti della Premier giocano un calcio votato all'attacco, con scelte nella linea mediana sempre direzionate a ridurre mediani muscolari ed a moltiplicare i piedi buoni. Ma vince Conte, come l'anno scorso vinse Ranieri.
Avere Kanté e giocare in dodici: la stessa cosa |
Chi vince ha sempre ragione, ma a mio avviso l'allenatore pugliese, che a quasi 50 anni vanta un curriculum internazionale sostanzialmente nullo con due sole partecipazioni alla CL, per imporsi nelle coppe dovrà cambiare il suo calcio. Il suo cordialmente detestato rivale Allegri è già a 7 partecipazioni, ed ha raggiunto una finale con la squadra che Conte aveva frettolosamente lasciato lasciato nell'estate del 2014, scontento di una campagna acquisti non in grado a suo dire di permettere un salto di qualità europeo dopo la delusione turca: "non ci si può sedere ad un grande ristorante con 20 euro in tasca". Allegri smentisce clamorosamente questa dotta metafora e non solo si siede al ristorante, ma mangia quattro portate: accompagna la Juve alla finale dopo 13 anni. La sconfitta di Berlino con il Barcellona è netta nel gioco ma non così chiara nell'andamento della partita, in bilico fino al letale contropiede di Neymar nel finale. Allegri corregge la squadra di Conte: il furore agonistico si stempera, il pressing si attenua, il possesso palla aumenta, Vidal gioca come trequartista di un armonioso 4-3-1-2, il modulo del cuore di Allegri, recentemente però passato ad un 4-2-3-1 che vede Pjanic in regia accanto a Khedira ed un imponente batteria di attacco con Mandzukic, Dybala e Cuadrado a supportare Higuain: il guanto di sfida all'Europa.
Conte in questo momento è con Tuchel, Pochettino, Sarri e Sampaoli l'allenatore emergente più interessante d'Europa. Ma per alzare la coppa dalle grandi orecchie serve un cambiamento, altrimenti tra qualche anno potrebbe ancora ricordare la notte di Manchester del 2003 come il momento in cui l'ha sfiorata più vicino, colpendo la traversa e poi perdendo ai rigori nella notte di Sheva e Dida: ma faceva ancora il giocatore.
Dejan
Dejan