Naturalmente, qui non serve un'ulteriore rievocazione. Nè è il caso di aggiungere un parere ai molti che - nel tempo e ancora oggi, anzi specialmente oggi - sono stati offerti su un tema virtuale: cos'avrebbe fatto Rivera nell'epoca del calcio fisico, veloce, ad alta intensità agonistica? Nel calcio in cui si giocano ottanta partite all'anno? Lui che non correva o correva poco, lui che non si occupava della 'fase difensiva', lui che anteponeva le giocate di stile e non amava le feroci battaglie. Rivera, oggi, sparirebbe dal campo, dicono taluni. Al contrario, la sua intelligenza, i suoi 'tempi' di gioco lo collocherebbero ancora tra i migliori, dicono altri. E' l'eco di antiche polemiche e discussioni, non c'è dubbio, innescate (con intelligenza) a suo tempo da Brera e raccolte (con partigianeria e malafede) da altri assai meno degni scribacchini.
Qual'è stata la reale dimensione di Gianni Rivera nella storia del football? La risposta è scontata, ma viene la curiosità di andare a frugare tra le molte 'classifiche' dei best players apparse negli ultimi anni. Rivera c'è in quella proposta dalla FIFA (con supervisione di Pelé) nel 2004 [vedi], che comprende solo giocatori 'viventi' (non necessariamente in attività: vai a capire il senso della limitazione), sicché l'elenco include, tra gli italiani, Boniperti e non Meazza, Christian Vieri e non Silvio Piola - ma, per esempio, c'è Del Piero e non c'è Mazzola, c'è Paolo Rossi ma non Gigi Riva. L'International Federation of Football History & Statistics aveva promosso, alla vigilia del nuovo millennio, la costruzione di una classifica 'vera', relativa al XX secolo [vedi]. Non conosciamo bene i criteri di valutazione né i valutatori (giornalisti e pedatori non più in attività, si assicura): Rivera c'è, ed è il primo degli italiani, pur preceduto da campioni che, forse, non dissero più di lui nella storia del gioco: diciannovesimo, comunque, proprio davanti a Meazza e a Sindelar, ma (per restare nell'ambito milanista) dietro a Gullit, Schiaffino e Van Basten. Tra gli italiani, più indietro ma nell'ordine della classifica, Franco Baresi, Facchetti e Mazzola. Nel 2000 anche World Soccer propose la classifica dei 100 Greatests Players del '900 [vedi]. Qui il Gianni non c'è; ci sono invece Baggio (16°) e passi, Paolo Maldini (21°) e passi, Meazza (37°) e passi, Paolo Rossi (42°) e passi, Zoff (47°) e passi, ma è inaccettabile Christian Vieri (71°) soprattutto se davanti a Riva (74°) , così come Del Piero (77°) in particolare davanti a Facchetti (90°): come minimo, qui si percepisce una scarsa conoscenza della storia del nostro calcio. L'anno precedente (1999), l'esercizio era stato affrontato dal Guerin Sportivo [vedi], che proponeva una lista dei migliori 50 all times. Qui ci sono 15 italiani - ovviamente una presenza sovradimensionata -, ma è interessante la collocazione interna al football italico dei singoli campioni: davanti all'abatino, 13° in assoluto, ci sono solo Meazza e Valentino Mazzola. Non c'è Sandro. E si potrebbe continuare ma, come ben si vede e si sa, la materia è del tutto opinabile (con spazio per le 'provocazioni', alle quali si abbandonò So Foot nel 2012 [vedi]).
Torniamo ai nostri giorni. Un compleanno raramente genera riflessioni che rinuncino alla tentazione di 'celebrare', magari con nostalgia, la grandezza del festeggiato. Il quale, dal canto suo, alla nostalgia si sottrae - anzi, si è sempre sottratto. Così, probabilmente oggi Rivera è l'unico a non avere nostalgia di Rivera, a non interrogarsi su ciò che poteva essere e non è stato (forse, l'unica sua reale amarezza è costituita dal non aver potuto giocare quella che persino Brera riteneva sarebbe stata la 'sua' partita: Italia-Brasile del '70), l'unico capace di scherzare sul gol del 4-3 con la Germania, che ancora (al solo pensiero) produce tachicardie in chi la vide in mondovisione.
Hanno 'festeggiato' il Golden Boy alcune delle migliori penne nostrane, tutte abbastanza in là con gli anni, ma con ancora ben saldi nella mente immagini e ricordi del calcio nei 1960s e 1970s. Nessuno ha ceduto alla tentazione di pennellarne (con minore o maggiore dispendio di inchiostro) un ritratto, una 'voce' capace di rievocare ciò che Rivera fu, come calciatore e non solo. Ripropongo, qui, gli schizzi che mi pare siano meglio riusciti.
Gianni Rivera è stato il più grande calciatore del football italiano, per la naturalezza, per l'eleganza, per il tocco essenziale, raffinato, magistrale. Gianni Rivera è stato il più grande talento sprecato del nostro stesso calcio, tenuto ai margini e sopportato appena per quel carattere istintivo ma non crudele, per il suo dire e non mandare a dire, per le scelte sbagliate nei momenti giusti e per le scelte giuste nei momenti sbagliati. In altri Paesi sarebbe stato un monumento non per farci defecare i piccioni ma per far intendere alla gente che cosa sia stato e che cosa sia ancora il gioco del pallone, nella sua arte genuina, non certo nei muscoli e nelle ripartenze. Gianni era seta tra cenci o stoffe di cotone, aveva l'intuito dell'artista, l'occhio di falco, di cui oggi si canta, era per lui dote di natura, il tocco di palla era appena accennato ma deciso, il passaggio partiva dal suo piede prima che lo spettatore ne potesse avvertire la necessità e intuire la traiettoria (Tony Damascelli, Il Giornale)
Rivera riassume molti tratti della stirpe italica. Il talento precoce: debuttò in serie A, con l’Alessandria, a sedici anni non ancora compiuti. Poi solo Milan. Il compromesso fisico: aveva spalle banali, torace modesto, diventò l’«abatino» di Gianni Brera. «Più artista che atleta». Il compromesso storico: le celeberrime staffette «messicane», con Sandro Mazzola e per sei minuti, in finale, con Roberto Boninsegna. Un po’ al governo, un po’ all’opposizione. L’attimo fuggente: il gol d’interno destro nei supplementari di Italia-Germania Ovest 4-3, ai Mondiali messicani. La partita che ci fece nazione e non più gregge. Una svolta, non una semplice volta. Il politico. Da capitano e dirigente del Milan, contro gli arbitri. Da pattista e deputato dell’Ulivo, contro Berlusconi. Mondo X, padre Eligio: calcio come confine, non come prigione. L’anticonformista. Madrid 1969, finale di Coppa dei Campioni: Milan-Ajax 4-1. Allenatore, Nereo Rocco. Linea d’attacco: Hamrin, Lodetti, Sormani, Rivera, Prati. E lo chiamavano catenaccio (Roberto Beccantini, Beck is Beck).
Il resto apparso sui giornali in questi giorni è ordinaria amministrazione; schede da piccola enciclopedia, palmarès, statistiche; nelle edizioni on line qualche foto-gallery facilmente assemblabile, qualche video incorporato da Youtube. Interviste, come già si accennava. La festa, indubitabilmente, c'è stata. I tributi offerti. Ora si torna al 'calcio moderno': piaccia o no, il gioco è sempre quello, e altri campioni unici vi faranno capolino. Unici, come Rivera.
Mans