30 settembre 2014

I santoni e le loro idee

Cartoline di stagione: 7° turno 2014-15

Chi ama il beautiful game vive in questi anni un'epoca fortunata: può infatti assistere a un football bellissimo, come raramente si è dato, per intensità e numero di interpreti, nella sua storia. Non parlo ovviamente del calcio italiano, ormai arretrato e periferico, né del calcio dei "top players", che un tempo erano chiamati più semplicemente "campioni" (e ce n'erano anche più di oggi). Mi riferisco a pratiche di gioco che alcune squadre stanno mostrando e hanno mostrato in anni recenti: un'idea di gioco offensivo inverata in più di un XI. Andando à rebours, per esempio, nella stagione scorsa hanno giocato in modo splendido, spettacolare, squadre come il Liverpool di Rodgers e l'Atletico di Simeone; nel 2013 il Borussia di Klopp e il Bayern di Heynckes; nel 2012 l'Athletic di Bielsa e la Juventus di Conte; nel 2011 il Barcellona di Guardiola, per citare solo quelle di vertice. Il recente Mondiale in Brasile si è rivelato probabilmente il più bello di sempre, soprattutto nella prima fase, confermando che i selezionatori delle nazionali avevano recepito le tendenze dettate dalle maggiori squadre di club europee.

La cattedra prediletta da Bielsa nella sua aula marsigliese
Jonathan Wilson ha ascritto questa nuova, grande, stagione del football mondiale soprattutto all'esempio proposto, sin dagli anni 1990s (quelli bui dominati dal difensivismo muscolare e dall'abiura dei giocatori atipici), da due allenatori visionari - Marcelo Bielsa [vedi] e Louis van Gaal [vedi] - le cui idee hanno seminato un nuovo modo di proporre il gioco, più offensivo, più prolifico, raccolto da vari altri loro colleghi. Entrambi non sono stati degli innovatori assoluti, ma degli appassionati e colti interpreti degli assiomi del calcio totale che era stato ideologizzato da Rinus Michels negli anni 1970s, e che aveva avuto un poco conosciuto antecessore in Viktor Maslov [vedi] e poi due grandi interpreti come Valerij Lobanovs'kyj e Arrigo Sacchi. Non la faccio lunga, ma sottolineo solo che non si tratta di una questione di modulo (di 4-3-3 o di altre formule), ma di atteggiamento: giocare un calcio propositivo, dare la caccia alla palla, pressare alto, proporre un movimento continuo dei giocatori e una varietà di opzioni per chi gioca il pallone, giocare di prima, creare lo spazio con il movimento degli attaccanti centrali, etc.

La stagione che è cominciata da un paio di mesi propone Bielsa e Van Gaal alla guida di due squadre di vertice nei rispettivi campionati. Le ambizioni, la storia recente e gli acquisti spropositati del Manchester rendono la messa a punto del nuovo progetto di Re Aloysius [vedi] necessariamente più lenta e accidentata. El Loco, invece, lavora su una scala inferiore, che forse è quella che più gli si confà, alla fin fine: a Marsiglia si è posto alla guida di un gruppo di ragazzi che lo seguono con convinzione. E i risultati cominciano a vedersi, nonostante le frizioni dell'argentino di Rosario con la dirigenza dell'Olympique che gli aveva promesso qualche acquisto di qualità che non è mai arrivato (un po' la stessa storia andata in scena a Napoli tra De Laurentiis e Benitez). Dopo una partenza scoppiettante (3:3 a Bastia e 0:2 dal Montpellier) sono venute sei vittorie consecutive: tre fuori casa (Giungamp 1:0, Evian 3:1, Stade de Reims 5:0) e tre in casa (Nice 4:0, Stade Rennais 3:0 e Saint-Etienne 2:1). Certo, il Marseille deve ancora affrontare le maggiori inseguitrici (Bordeaux, Lille e Paris Saint-Germain) ma l'allure è impetuosa.

La cartolina del week end arriva infatti, dritta filata, da un rinnovato Vélodrome vibrante di passione sugli spalti - con echi "argentini" innestati nel ribollire mediterraneo della tifoseria - e illuminato dal gioco dell'XI guidato da Bielsa. Un gioco semplice, lineare, verticale, veloce, senza fronzoli, senza passaggi orizzontali, senza lanci lunghi, tutto di prima, in un movimento continuo di uomini e linee, che tradisce il frutto di un'intensa didattica bene assimilata da una rosa senza campioni ma non priva di giocatori di qualità, dai più noti Mandanda, Payet, Gignac e Ayew ai più giovani N'Koulou, Dja Djédjé, Imbula e Thauvin ... Tatticamente la squadra gioca con linee a 3, che mutano a 4 a seconda delle fasi di gioco, come detta il modulo prediletto da Bielsa. Difesa a 4 in fase di non possesso, da cui esce sempre in prima battuta sul portatore di palla il centrale N'Koulou. Centrocampo a 4 quando riparte l'azione con due esterni, Romao e Thauvin, che si allargano sulle linee laterali mentre il gioco è proposto in verticale da Imbula e dallo stesso N'Koulou. Attacco a 4 con Gignac centrale, Payet alle spalle e Ayew e Thauvin sulle fasce: ma punte mobili, con Gignac che arretra a dettare il triangolo con i mediani che salgono: domenica scorsa, due gol in fotocopia, di Imbula e Payet, infilatisi al centro nel risucchio prodotto da Gignac. Chi non ha ancora visto questo XI si sintonizzi al più presto: uno spettacolo. La squadra più bella del momento.

Primi piani nitidi e terze linee sfuocate
Un gioco simile lo predica da anni anche Zdeněk Zeman, il santone nostrano: 4-3-3 di base, movimento continuo, transizione veloce della palla in verticale, senza troppi lanci lunghi o tiki taka orizzontali, gioco di prima, triangolazioni in attacco, diagonali estreme in difesa. Un'idea di gioco - per nulla misteriosa: si chiama, pensa un po', "calcio totale" - che in Italia pochi comprendono e tutti sbeffeggiano. In settimana i sedicenti "esperti" e i cosiddetti "opinionisti" avevano inscenato un surreale dibattito sui media: se cioè il calcio di Zeman fosse ancora attuale. Il problema (per loro, non per lui e nemmeno per noi) è che "non sono attuali" gli addetti ai lavori italiani, la cui ignoranza del football che si gioca all'estero è ormai pari al livello modestissimo cui è ridotto l'unico calcio che essi guardano senza cognizione. Domenica pomeriggio, a San Siro, Zeman ha inflitto coi suoi giovani del Cagliari una lezione di gioco al calcio italiano, mostrando cosa significhi avere idee, allenare una squadra, fare didattica. L'avversario era blasonato ma ormai naufragato da un'epoca tramontata che però perdura nelle ataviche convinzioni di molti suoi protagonisti: non solo il modestissimo Walter Mazzarri, ma anche la società che investe su di lui e su giocatori male assemblati, l'ambiente che sopravvaluta come campioni dei mesti ronzini, etc. Da un lato un gioco di squadra - quello che si gioca stabilmente nelle coppe europee (dal cui proscenio i nostri club sono ormai scomparsi) -, dall'altro una trama affidata alle individualità, agli estri estemporanei, drammaticamente priva di idee e di conoscenze. Uno iato culturale di cui i protagonisti non sono nemmeno consapevoli, intenti come appaiono a invocare attenuanti: gli arbitraggi, il turn-over, la sfortuna. Magari fosse così: non saremmo qui a terra, con le nostre vergogne.

Azor