12 settembre 2014

Arbiter, arbitrator seu amicabilis compositor

Un paio di settimane senza Serie A sono ideali per una riflessione a freddo su arbitri e arbitraggi. Giocatori, allenatori, dirigenti, moviolisti e tifosi sono travolti da questi ultimi in un flusso continuo che dura nove mesi, nel quale se ne dicono di enormi e di sesquipedali senza ritegno e senza vergogna - un genere che su Eupallog non pratichiamo da sempre, mica per snobberia ma perché noiosissimo. Preferiamo parlare di arbitri, anche se il tema non è, come sul dirsi, le plus amusant. Ma tant'è.

Come tutti, gli arbitri sbagliano, possono comportarsi in mala fede, farsi condizionare dai potenti, ed essere corruttibili (e probabilmente taluni - ma questo è davvero difficile da appurare - sono anche "cornuti", come si gridava un tempo dagli spalti). La storia della pedata è ricca di arbitri che hanno pesantemente condizionato partite e risultati: gli Azzurri di Pozzo, per esempio, furono certamente "aiutati" sulla strada della finale mondiale alla quale presenziò il Ducione nel 1934; arbitri sensibili alle lusinghe "casalinghe" si appalesarono in vari altri mondiali, da quelli cileni a quelli nippo-coreani, per ricordare episodi ben noti a noi italiani. La finale del 1966 fu determinata a favore degli inglesi da un guardalinee (ma arbitro) azero, che poi ottenne un apposito riconoscimento nientepopodimeno che da Her Majesty The Queen [vedi]. E numerosi - in giro per il mondo - sono i casi di arbitri sanzionati per corruzione o allontanati per la clamorosità delle malefatte.

Il consenso
Nessuno ama ricordarlo, ma probabilmente sono stati - e sono - però più numerosi i dirigenti, gli allenatori e i giocatori che hanno venduto o concordato i risultati delle partite. Le ricorrenti e varie "Calciopoli" sembrerebbero confermarlo, perlomeno per l'Italia.

All'estero gli arbitri italiani sono invece considerati tra i migliori al mondo per organizzazione e scuola. Non a caso sono spesso chiamati ad arbitrare le finali delle competizioni internazionali. In tali occasioni scatta quasi sempre un divertente tormentone: l'orgoglio fa gonfiare il petto a molti opinionisti e connazionali. Gli stessi che appena una settimana prima o la seguente non esitano a gonfiare le proprie giugulari contro i medesimi fischietti, accusandoli dei peggiori misfatti se la propria squadra ne è stata "vittima" in campionato. Gli applausi del "Franchi" di Firenze a Howard Webb nel prepartita del ritorno del quarto di Europa Legue 2014 della Fiorentina contro la Juventus non sono altro che la controfaccia del nostro provincialismo.

Il fatto è che all'estero le nostre giacchette psichedeliche arbitrano spesso meglio che in casa. Per un semplice motivo: si adeguano a un contesto che non vede nell'arbitro un protagonista ma solo un ufficiale ("official" è infatti uno dei termini con cui il "referee" è indicato in Inghilterra) che deve servire il gioco. Nel nostro campionato, intossicato dalla cultura ultrà ed erede delle secolari lotte di fazione, gli arbitri invece sono ritenuti gli artefici dei risultati.

Lo sconcerto
Il conio della felice espressione "sudditanza psicologica" - un'ammissione, va ricordato, sfuggita al capo (veneziano) della Can, Giorgio Bertotto, all'indomani di un Venezia-Inter 2:3 del 16 aprile 1967 arbitrato da Antonio Sbardella ("Purtroppo gli arbitri soffrono di una sorta di sudditanza psicologica nei confronti delle grandi società") - è certamente motivato da pratiche confermate dallo scudetto del Verona nell'unica stagione in cui fu adottato il sorteggio integrale per le designazioni. Per reazione gli arbitri italiani hanno ormai adottato un habitus di suscettibilità.

Chi scrive ritiene che la media attuale dei nostri arbitri sia tecnicamente modesta e, soprattutto, caratterialmente inadeguata. Certo, i nostri ufficiali di gioco non sono aiutati dalle altre componenti. L'immagine dei capannelli di giocatori inferociti è tristemente ricorrente ad ogni partita. Moltissimi giocatori li vaffanculeggiano platealmente, dopo avere spesso simulato le più terribili menomazioni. Le panchine tracimano in campo ad ogni fischio contrario. I cori degli ultras e dei loro corifei sono squallidi. Gli ex colleghi che assegnano i voti in pagella in tv regolano palesemente vecchi conti in sospeso e rancori e invidie mal dissumulate. Il piagnisteo degli allenatori è il corollario di ogni fine partita. Le dichiarazioni dei dirigenti sono spesso irresponsabili. E gli urlatori televisivi travestiti da giornalisti completano la gazzarra. Che poi tracima in rete, nei bar e nelle strade per infiniti giorni in un grande blob che pasce per nove mesi gran parte dei tifosi italiani. Al punto che viene da dubitare che costoro amino davvero il gioco del calcio o non si accontentino piuttosto di un simulacro (baudrillardamente, più che sabatinianamente, inteso - ben inteso!).

Torino - Inter di domenica 31 agosto scorso offre qualche spunto interessante, a proposito di crisi del calcio italiano. Parliamo di Walter Mazzarri, Daniele Doveri e Nemanja Vidic. Il primo ha ricominciato subito, alla prima partita di campionato, la litania dei torti arbitrali per cercare di mascherare la pochezza di risultati del suo lavoro all'Inter da più di un anno: la squadra gioca un calcio avvilente, povero di idee e di occasioni, tristemente votato al celibato. Meglio allora scaricare sull'arbitraggio ogni responsabilità. Ma possono credergli ormai solo i "nesci", come diceva il Maestro.

Lo sconforto
31 agosto 2014, Stadio Olimpico, Torino
Nemanja Vidic ha invece un'esperienza internazionale che il signor Doveri, per quanto appartenente alla sezione 1 della Città Eterna, nemmeno si sogna. Lo ha pertanto applaudito, come era uso fare talora in Premier, per manifestare il suo apprezzamento per una sanzione che riteneva fischiata a suo favore, mentre in realtà l'arbitro era orientato in senso contrario. Apriti cielo. Il permaloso Doveri ha ritenuto che l'applauso significasse un'azione di scherno, come sono effettivamente adusi svariati giocatori della nostrale Serie A: reazione pavloviana. Commento del guerriero serbo: "è stato scioccante. Devo capire come gestiscono qui i cartellini, è diverso dall'Inghilterra". La distinzione geografica è lapalissiana, ma il confronto richiama il problema dell'"alterità culturale": occorrono, cioè mediazioni. Difficile però che queste possano venire da una categoria come quella degli arbitri italiani capace di adontarsi per un nonnulla e di reagire spropositatamente per ogni presunta "lesione all'onore": un costume che, ci insegnano gli antropologi, caratterizzerebbe da sempre civiltà e popolazioni del Mediterraneo rispetto a quelle dei Mari del Nord.

Nondimeno, se l'errore tecnico è comprensibile - e non esiste tecnologia che lo possa evitare in assoluto, anche perché spesso la "verità" svela la sua dimensione "pirandelliana" - e, al netto dei furori di parte, giustificabile, lo sono assai meno la suscettibilità e la presunzione delle nostre giacchette. E' soprattutto su questo punto che, a mio avviso, i nostri arbitri appaiono non all'altezza del proprio ruolo: dovrebbero essere dei mediatori sereni (come ricorda la vecchia formula dei giuristi medievali "Arbiter, arbitrator seu amicabilis compositor"), non dei caratteristi umorali come coloro che li giudicano.

Azor