Nella visione cristiana del mondo il denaro è "lo sterco del diavolo", come ha recentemente ripetuto con forza anche Papa Francesco. Quindi, poichè il calcio - soprattutto nei paesi latini - è un fenomeno di natura essenzialmente religiosa (qui sarebbe troppo lungo giustificare questa affermazione, ma tornerò in futuro sul tema), dobbiamo essere consapevoli che ogni volta che il denaro intende guidare il calcio, quest'ultimo deperisce, imbruttisce e perde ogni magia.
Qui non è in ballo il rispetto del mercato o l'adesione a un'ideologia pauperista, tutt'altro! Il denaro nel calcio è proprio ciò che fa saltare ogni basilare etica economica di mercato, perchè i Club spendono sempre più di quanto incassano e - pur essendo quasi tutti tecnicamente "falliti" sul piano economico - "chiudono bottega" solo in casi eclatanti. Inoltre, il calcio non ha bisogno di grandi quantità di denaro, poichè la struttura economica dei Club è priva di particolari necessità di investimento e i calciatori - sul piano antropologico e sociale - sono esattamente la stessa cosa, dai milionari della Serie A ai puri dilettanti della Terza categoria.
La presenza del denaro nel calcio è essenzialmente giustificata da supposte necessità legate agli stipendi dei calciatori. In realtà, questa è una pura convenzione alimentata da addetti ai lavori che non capiscono nulla di calcio o ne traggono un interesse economico. La strada del denaro non porta da nessuna parte. Ciò che può salvare il calcio è solo una "rivoluzione contro il denaro", anche promossa da un solo Paese. Se oggi, nella Serie A italiana (che perde stabilmente 500 milioni l'anno) si adottasse - per gentlemen agreement o norma statutaria - un salary cap per rendere "normali" gli stipendi dei calciatori (dai 100 ai 300 mila euro l'anno), non accadrebbe nulla di ciò che "asini" travestiti da "furbi addetti ai lavori" strillerebbero su ogni giornale e televisione.
Gli effetti veri sarebbero tre.
Il primo - sempre che nessun altro paese intenda seguire questa scelta rivoluzionaria - sarebbe un immediato tentativo, spinto dai procuratori, di "emigrazione di massa" di quasi tutti i 500 giocatori della Serie A. Dove potrebbero andare? Certo, qualche campione troverebbe ingaggi in quei 4 o 5 campionati in Europa che pagano cifre milionarie, qualcun altro andrà in Cina o negli Stati Uniti (pochi, però, vista la politica sempre più restrittiva verso gli stranieri) e qualcun altro andrà a finire la carriera nel finto calcio dei paesi del Golfo. Comunque, anche nella più rosea delle ipotesi per i procuratori, non più di un terzo potrebbe trovare ingaggi paragonabili alla Serie A, quindi agli altri non resterebbe che accettare di guadagnare "solo" 2/300 mila euro all'anno. Sì dirà: "Ma così perderemo tutti i campioni!". I campioni di oggi certamente si, ma quanto tempo ci vuole, in un calcio totalmente intermediato dai mass media, a trasformare un giocatore in un campione nell'immaginario dei tifosi? Poco, dai 6 ai 18 mesi, se pensiamo che solo poco più di un anno fa nessuno conosceva il nome di Gigio Donnarumma. Quindi, se per un annetto dovremmo fare a meno degli Icardi o degli Higuain, tuttavia ben presto ci affezioneremo a centinaia di giocatori che hanno tutte le qualità per giocare in Serie A ed in questo esatto momento militano in sconosciute squadre sudamericane, africane e dell'est Europa. Per non parlare poi della possibilità che questo enorme risparmio per i Club (la "mossa", ovviamente allargata agli staff tecnici, vale un miliardo di euro all'anno di minori costi) produca investimenti sui settori giovanili che possano portare un maggior numero di giocatori italiani a giocare in prima squadra (Atalanta docet).
Il secondo effetto riguarda il tema, tanto fondamentale quanto sottovalutato, della CSR calcistica, cioè quella responsabilità sociale di un Club che si pone all'origine del sentimento "religioso" verso il calcio. Un Club, infatti, può fare tante cose importanti al di fuori del rettangolo di gioco: dal portare tutta la propria comunità territoriale in stadi belli ed accoglienti ad intervenire positivamente sulle dimensioni emotive e sulle criticità sociali, attraverso il rapporto sano con i tifosi, l'uso degli ex calciatori, la presenza nei luoghi della sofferenza, etc ... Per fare tutte queste cose, tuttavia, occorrono soldi che attualmente gli indebitati Club calcistici non hanno: ecco dove indirizzare positivamente parte del forte avanzo di gestione che nascerebbe da una scelta drastica di salary cap sui calciatori.
Il terzo effetto è relativo alla qualità espressa dal calcio italiano. Se è ovvio che una scelta del genere, generando maggiori risorse per i settori giovanili, migliorerebbe notevolmente il livello delle nostre rappresentative nazionali, tuttavia, molti degli "asini" sopracitati sosterebbero che il livello del calcio di Club calerebbe notevolmente, facendoci scomparire dalle posizioni di vertice in Europa. A parte che in quelle posizioni non ci siamo più da anni, in realtà, è vero proprio l'esatto contrario: in qualunque categoria, infatti, la qualità calcistica non è funzione del denaro dei grandi Club, ma della contendibilità delle posizioni di vertice e questo scenario raggiunge il suo punto massimo laddove tutti i Club (e non solo 4 o 5) hanno le risorse per vincere il campionato. Per non parlare poi dello straordinario stimolo che investirebbe tutto il mondo calcistico fino alla categorie minori: oggi, infatti, l'idea di una scalata al grande professionismo, qualora si possegga solo competenza, qualità, intelligenza e talento,è considerata una "missione impossibile", mentre si pensa che l'avventura calcistica sia affrontabile solo da "ricchi scemi" che, senza alcuna competenza, gettano nel calcio soldi in pura perdita.
Ma attenzione, se a qualcuno questa ipotesi "rivoluzionaria" di un calcio a basso costo può sembrare un'utopia, teniamo presente che l'alternativa è solo quella di continuare la follia di "vendere al miglior offerente" il nostro calcio, cioè una scelta di "schiavitù volontaria" di cui ben presto, a cominciare dai tifosi di Inter e Milan, molti capiranno l'assurdità.
Alessandro Aleotti
(saggista, fondatore e presidente del Brera FC),
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