Alicante, 13 de junio de 2014
Ammettiamolo, si respira un'aria differente rispetto ai
recentissimi anni trionfali della
Roja.
L'Europeo del 2008 era stato accompagnato da una massiccia campagna
promozionale che riusciva nell'intento di unire le dissonanti voci iberiche in
una compatta – e ossessiva – recita liturgica del motto
Juntos Podemos («Insieme possiamo»). Dopo la finale viennese, il medesimo
refrain riecheggiava senza sosta in
un paese in cui l'esplosione di una profonda crisi economica e sociale si affiancava
a continue affermazioni sportive, culminate nella conquista del mondiale sudafricano.
Infine, a coronamento del tripudio della bandiera
rojigualda, l'apoftegma
No
hay dos sin tres («Non c'è due senza tre»: banale quanto efficace) spingeva
la selezione spagnola alla vittoria di Euro 2012 e affondava l'Italia
prandelliana nello spietato castigo di Kiev.
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Homo novus:
Diego Da Silva Costa, novità e gran speranza della Roja |
La marcia di avvicinamento al torneo non è più così
trionfale: suona una sinfonia d'insoddisfazione per un gioco che, nel corso
degli anni, ha perso non tanto in efficacia quanto in appeal, a tal punto che
anche il più nazionalista ormai confessa apertamente la sensazione letargica trasmessa
dal
tiqui taca del marchese Del
Bosque: lento, spossante, orizzontale. L'ossatura e lo stile della
Roja, del resto, sono essenzialmente
culé,
e pertanto risentono dellʼ
annus
horribilis del Barça, alla staffa di "Zero Tituli" per la prima
volta in sei anni, e del calo di prestigio in patria dell'ideologo per
eccellenza del possesso palla, quel filosofico Pep Guardiola che col suo Bayern ha raccolto una sonora scoppola in Champions League ad opera di un Real
Madrid verticale e letale (nonché pragmatico, come Don Carletto). Real Madrid e
Atleti hanno archiviato le spocchie sulle percentuali bulgare di possesso palla,
non così determinante quanto un sano e libero sfogo a fuoriserie del calibro di
Cristiano, Bale e Diego Costa.
Nel frattempo, il Barça ha cominciato a mettere timidamente in discussione la
permanenza nel club del simbolo di un'epoca, quel Xavi Hernandez divenuto ormai
troppo ingombrante a detta di una larga fetta di critica, che mal ne digerisce un
peso specifico e un'
auctoritas
decisionale (anche all'interno della nazionale) inversamente proporzionali all'attuale apporto
tecnico.
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I dubbi di Del Bosque e Xavi Hernández |
Per la prima volta dopo otto anni, la Spagna – parzialmente
distolta da temi extracalcistici, quali le questioni inerenti l'abdicazione
del re Juan Carlos e la successione del principe Felipe – dubita. Teme soprattutto
il Brasile, padrone di casa (nonché oggetto di arbitraggi ossequiosi) da cui la
Roja veniva surclassata nella finale
di Confederation Cup; ma anche l'Argentina, con il suo enorme potenziale
offensivo, e la generazione talentuosa tedesca, matura al punto giusto e
determinata a vincere all'ottavo anno di Löw.
Duca