27 febbraio 2015

Non è mai troppo tardi

Fettine di coppa: sedicesimi di EL 2014-15 (ritorno)

Alla bella serata di coppa di giovedì sera - bella non solo per il calcio italiano ma in generale - sono mancati solo alcuni colori. Dal De Kuip avremmo preferito che le immagini fossero giunte in bianco e nero, aperte dallo storico stroboscopio dell'Eurovisione e magari introdotte dalla voce chioccia di Bruno Pizzul: da Rotterdam, infatti, giungevano echi di euronotti anni 1970s, da uno stadio di straordinario fascino, col terreno di gioco sodo e zolloso come solo nel nord del continente (memore dei vomeri profondi del sistema curtense), e le file compatte di pubblico (e di lanci di oggetti ne abbiamo visti ben altri, dalle lattine alle rondelle, in quegli anni). Da Bilbao avremmo preferito che le immagini fossero giunte dalla Vecchia Cattedrale abbattuta (per far posto all'ennesimo santuario omologato) e, soprattutto, che il nostro glorioso Toro avesse sfoggiato non un'orrenda t-shirt azzurra, ma la sua storica maglia bianca da trasferta, con scudetto, pantalonicini e calzettoni granata. Peccato, ma prendiamo atto: questo è ormai il tempo del calcio moderno, con i suoi top-player (cui la serata sembra aver aggiunto finalmente anche l'atteso Fredy Alejandro Guarín Vásquez) e il suo calcio da play-station.

Un'immagine che valeva una sigla
Per una sera, però, sono saltate molte delle inibizioni del calcio di plastica, quello che ha impacchettato quasi tutti gli ottavi di Champions, fatta eccezione per la grande lezione imposta a uno dei suoi stocafissi più immarcescibili, Arsène Wenger, da un Monaco corsaro guidato da un nostro vecchio beniamino, João Moutinho, e dalla giovane stella nera su cui aveva posto gli occhi anche l'Inter di Mancini, Geoffrey Kondogbia. I sedicesimi di Europa League ci hanno riportato alle serate di Coppa Uefa del secolo scorso, con partite combattute e dagli esiti imprevedibili. Generose di emozioni sono state, per esempio, Dinamo Kiev - Giungamp (e non tanto per l'ennesima invasione di campo), Borussia Mönchengladbach - Siviglia (forse la più bella con quella di Bilbao), Besiktas - Liverpool e Olympiacos - Dnijpro. Oltre all'exploit delle italiane, questo turno archivia la disfatta delle squadre della Premier: fuori Liverpool e Tottenham (e già si era perso per strada l'Hull), avanza solo l'Everton, mentre in CL sono già fuori l'Arsenal e mezzo fuori il City, mentre ha buone chance, pur tra molte insidie, il solo Chelsea. A conferma che, per fortuna, non contano solo i budget e i fatturati per stabilire le gerarchie agonistiche.

Quanto alle nostre, ci è tornato alla mente - per restare al bianco e nero catodico - il maestro Manzi, che ci ricordava come "Non è mai troppo tardi" per imparare. Per imparare la lezione del calcio europeo. Dopo avere snobbato per quindici anni la Coppa UEFA - e proprio nei giorni in cui il nostro ultimo vincitore, il Parma, è diventato l'emblema del fallimento criminale della classe dirigente del nostro calcio - i nostri club sembrano riaverla presa finalmente sul serio. Ma dal momento che, arpinianamente, non ci annoveriamo tra le "belle gioie" [vedi], non crediamo nemmeno che la resipiscenza sia culturale. Di vile becchime continua a trattarsi, infatti: in una fase critica in cui i bilanci cominciano a saltare come tappi, anche un milioncino di euro, brutto e misero ma immediato, fa gola come una boccata d'ossigeno al posto della canna del gas. E la promessa dei play-off di Champions (bada ben, mica dell'accesso diretto) per il vincitore dell'Ombrelliera rappresenta un balsamo dell'anima per l'angoscioso stato comatoso in cui versano molte presidenze monageriali nostrane.

Un maestro capace di fare immaginare i colori
Volgendomi al "bright side" della serata devo dapprima riconoscere che ero stato troppo pessimista nel commentare l'andata [vedi]. Lasciando da parte l'allenamento partenopeo, meritato dalla grande spedizione in terra turca, e i patemi da pazza Inter (che ha sprecato lo sprecabile e beneficiato di un Celtic ridotto in dieci, sbloccando infine solo grazie a un missile ben temperato del Guaro), tre sono state le vere imprese della serata. Al De Kuip la Roma ha finalmente ritrovato carattere e voglia di vincere, ridando senso alle gerarchie: la seconda della Serie A non può valere meno della terza della Eredivisie, soprattutto se è capace di spendere decine di milioni per Iturbe, Ibarbo e Doumbia. Al Comunale di Firenze la Viola ha scritto la pagina storicamente più pesante della giornata, mostrando come la quinta in classifica della Serie A (con fatturato di 90 milioni di euro) valga quanto se non più della settima della Premier League (che fattura, oltretutto, 215 milioni di euro). Peccato che non sia sceso in campo nemmeno un giocatore di passaporto italiano, ma i meriti di Montella sono indubbi; su 180 minuti ha sofferto solo nei primi 20 al White Hart Lane, ha concesso una sola occasione al "Franchi" (orrendamente sprecata da Soldado); per il resto ha spezzato il ritmo e le linee di passaggio all'XI di Pochettino, ridimensionando anche gli alti lai alzati ad HarryKane, che ha l'aria di essere il solito attaccane inglese (leone in casa, miciotto all'estero).

L'epopea l'ha scritta il Toro, al San Mamés, dove ha preso in mano la partita orientandola spavaldamente fino alla storica espugnazione. Va dato merito dell'impresa a Giampiero Ventura, vecchio artigiano del calcio all'italiana nel suo senso migliore, senza catenacci ma di grande sagacia tattica, che alla vigilia era apparso sereno e fiducioso. Con ragione. Con sei italiani in campo, è l'impresa più nazionale della serata. Il Torino è la decima forza della Serie A attuale ed ha prevalso sulla 12esima della Liga. Anche così si rabbercia il ranking, e soprattutto si ricuce l'autostima perduta dal nostro calcio. La Roma e il Toro dovevano vincere e sono andate a farlo fuori casa senza erigere barricate, ma giocando: secondo tradizione, ma a viso aperto.

Questa sì che era una maglia gloriosa da trasferta
Una delle ragioni della positiva stagione europea dei club italiani risiede anche nella cultura dei tecnici che le guidano: Benitez ha vinto tutte le coppe ed è una garanzia; Mancini ha fatto il visiting professor all'estero e si vede; Garcia viene da vittorie in Francia; Montella è forse il migliore allenatore italiano, con Conte, tra quelli che non hanno ancora allenato all'estero; e Ventura è uno di quei vini che migliorano invecchiando. Nelle annate trascorse i nostri club avevano affrontato l'Europa con dei tecnici provinciali, addestrati a far barricate in trasferta a Reggio e a Trieste ma dimostratisi inadeguati a livello europeo (dai Mazzarri ai Gudolin, dai De Canio ai Rossi, per intenderci). Il passo avanti è evidente.

Basterà a colmare il gap e a far tornare un po' più in alto il nostro calcio? Non è detto. Gli ottavi ci diranno se si è trattato di un fuoco fatuo. Per evitare le violenze tra gli ultras russi e ucraini la regia dell'UEFA ha apparecchiato l'accoppiamento italico peggiore tra Fiorentina e Roma. Ma il resto del programma è da leccarsi i baffi, tra echi storici e opportunità attuali. Ossi duri per le altre italiane, con il vantaggio per Toro e Inter di giocarsi il ritorno in casa contro Zenit e Wolfsbrug, mentre il Napoli prolungherà il suo inverno a Mosca. Ma ricordandoci che stiamo parlando pur sempre della serie B europea. Ad agosto avevo sommessamente fatto notare che "la EL è ormai l'unica coppa alla portata delle squadre italiane" [vedi]. A terra siamo noi con le nostre vergogne ...

Azor