26 aprile 2015

La liberazione

Russ cume 'l sang

D'ora in poi i tifosi granata avranno una seconda Festa della Liberazione. Il 25 aprile celebreremo la Liberazione dal nazifascismo, il 26 quella dall'oppressione - altrettanto odiosa e ingiusta – dei gobbi. Io festeggio, ma un po' amaramente, perché mai avrei pensato che ci sarebbero voluti 20 anni per rivincere un derby: dal 1995 al 2015. Calcisticamente parlando, sono ere geologiche.

27 marzo 1983
Il Toro, nella sua storia, aveva sempre vissuto il derby come la “sua” partita. La nostra partita. E non c'era bisogno di una squadra fenomenale come quella del '76 per vincerlo. Versioni molto meno irresistibili avevano prevalso. Quello di Dossena-Bonesso-Torrisi, per dirne uno. Ma anche l'ultimo, quello di Rizzitelli, era bello - non scintillante. C'è voluto un lungo cammino, attraversando tutti i gironi dell'inferno (tranne quelli della LegaPro) per tornare ad avere la personalità necessaria per battere il mostro. Perché il segreto di quei tanti derby vinti era questo: loro avevano paura e perdevano spesso. Da oggi ritorneranno probabilmente ad averla. Anche dovessero diventare la squadra più forte del pianeta un “vero Toro” li spaventerà sempre. 

Controllo approssimativo, assist per se stesso, stoccata.
Giocate casuali e rare
Questione di valori, di interpretazione del ruolo. Loro saranno sempre gli spavaldi e ricchi dominatori e noi gli outsider, i dinosauri del calcio, quelli che la storia prima di tutto. Quelli che non puoi mai sapere, nemmeno se vinci 3-0 dopo mezz'ora. Quelli che come Davide non hanno paura, aspettano che Golia si avvicini per colpirlo meglio. Quelli che quel giorno lì tirano fuori qualcosa in più, fosse anche uno stop a voragine come quello di Matteo Darmian. Proprio in quel momento lì ho capito che forse qualcosa poteva succedere, quando il nostro giovane parrocchiano ha azzeccato la giocata impossibile, coprendo di ridicolo la difesa degli impenetrabili. Un fantastico bluff. Stoppo? Tiro? No, la butto avanti come un rugbista e vado in meta. E poi c'è lui, l'outsider per definizione: Fabio Quagliarella, il delantero triste perchè segna sempre alle sue ex squadre. Bello che questo derby l'abbia deciso lui, perchè la storia del Toro stava per finire dieci anni fa, quando lui era già più di una giovane promessa granata. Il fallimento Cimminelli-Romero lo condannò a un perpetuo nomadismo pallonaro.


Ma oggi il cerchio si è chiuso e la storia ha ripreso a camminare nel verso giusto. Dobbiamo autodedicarci questo derby, per l'amore con il quale lo abbiamo aspettato e a nostra volta dedicarlo a una intera generazione che una vittoria l'aveva vista solo nei filmati su Youtube. La loro felicità incredula è la vera Liberazione. E poi questo derby è un regalo prezioso a un signore che li vinceva ancora prima di giocarli: buon compleanno Puliciclone.

Pulici

25 aprile 2015

Viva l'Italia

Fettine di coppa: quarti di CL ed EL 2014-15
Viva l'Italia, l'Italia liberata [70 anni fa ...].
Viva l'Italia, l'Italia che non muore. 
L'Italia con gli occhi asciutti nella notte scura, 
viva l'Italia, l'Italia che non ha paura. 
Viva l'Italia, l'Italia che è in mezzo al mare, 
l'Italia dimenticata e l'Italia da dimenticare, 
l'Italia metà giardino e metà galera, 
viva l'Italia, l'Italia tutta intera. 
Viva l'Italia, l'Italia che lavora, 
l'Italia che si dispera, l'Italia che si innamora, 
l'Italia metà dovere e metà fortuna, 
viva l'Italia, l'Italia sulla luna. 
viva l'Italia, l'Italia che resiste. 

Sì, sono i brani che mi sono venuti per primi alla mente dopo le serate europee di coppa di questa settimana felice per il nostro calcio così malinconico, metà giardino e metà galera, metà dovere e metà fortuna. Ma ancora una volta che non muore, che non ha paura, che resiste. E' l'Italia sulla luna. L'Italia con gli occhi asciutti nella notte scura.

16 aprile 2015, Volkswagen-Arena, Wolfsburg
L'urlo dell'espugnatore
A fine agosto, dopo l'eliminazione, meritata, del Napoli dalla Champions League, avevo auspicato che "Benitez, che l'ha già vinta, Mazzarri, che l'ha sempre snobbata, e Montella, che l'ha bene interpretata lo scorso anno, farebbero bene a considerare la possibilità di battersi non tanto per il periglioso terzo posto in Serie A quanto per la vittoria, più prestigiosa e più pesante, della Europa League". E avevo aggiunto: "Il calcio italiano si gioca nell'Europa League di questa stagione una buona fetta del suo futuro. La sensazione è che i suoi protagonisti, tifosi inclusi, non ne siano affatto consapevoli. Ma speriamo di sbagliarci". Mi fa piacere essermi sbagliato. Come mi ero sbagliato a scrivere che "la EL è ormai l'unica coppa alla portata delle squadre italiane. Di questo sarebbe opportuno che se ne facessero per primi una ragione i protagonisti, a cominciare dagli allenatori e dall'ambiente. Uno scenario per nulla remoto è infatti che vi possano retrocedere anche la Juventus e la Roma da febbraio" [vedi]. Ero stato pessimista.

Grazie all'esca dell'ammissione diretta ai playoff di Champions, finalmente i nostri club si sono resi conto che avevano varcato la linea rossa, per ignavia e per ignoranza di come va il mondo (del football). Ancora una volta constatiamo che il nostro è un paese capace di impegnarsi e di ottenere risultati, come avviene, silenziosamente e quotidianamente, in tanti altri campi delle attività umane. E' l'Italia che lavora. Siamo infatti un grande paese, senza consapevolezza. Smemorato di sé, come diceva Carmelo. Un grande paese cui manca la costanza di volerlo essere sempre, ogni giorno. Per cialtroneria, per dirla spiccia. Il rapporto violento di Roma con il calcio ne è lo specchio: la città messa a ferro e fuoco dagli ultras nella notte successiva all'omicidio di Gabriele Sandri, l'11 novembre 2007 [vedi]; le continue "puncicate"; il bivacco batavo in piazza di Spagna per graziosa concessione del cosiddetto questore; l'8 settembre del calcio italiano nella finale di Coppa dello scorso maggio, etc. Dove le autorità, inadeguate e imbelli, appaiono le degne deuteragoniste degli ultras. E' l'Italia da dimenticare.

23 aprile 2015, Stadio "Artemio Franchi", Firenze
Il matador tranquillo
Tra i tanti commenti di queste ore, pochi mi sembrano abbiano rilevato un dato significativo e incoraggiante. Le tre squadre italiane approdate con merito (e un pizzico di fortuna) alle semifinali continentali appartengono a tre club tra i pochi con i conti a posto. La Juventus ha ridotto il deficit da 95,4 a 6,7 milioni di euro nei quattro anni in cui ha vinto tutto in Italia, e si appresta a varcare i 300 milioni di fatturato in questa annata di progressione europea. Un capolavoro gestionale. Il Napoli è in utile da 8 anni, non vanta debiti con le banche, ha aumentato gli stipendi da 66 a 89 milioni, ma anche gli ammortamenti da 39 a 63; per non farsi mancare nulla il suo pittoresco presidente si è pure staccato un assegno da 5,5 milioni ... La Fiorentina è in utile negli ultimi due esercizi, nonostante gli stipendi in crescita da 52 a 60 milioni. E' dunque un caso che tre club con i conti in ordine siano arrivati in fondo in Europa? Può essere. Ma se guardiamo ai bilanci dei club usciti di scena da tempo constatiamo che la Roma presenta un disavanzo di 38 milioni e un debito di 120, e che l'Inter è di fatto fallita: 102 milioni di disavanzo, oltre 200 di debiti, 265 di spese. Dati riportati dalla "Gazzetta" del 5 marzo 2015. A conferma che - alla lunga - la buona gestione è alla base dei buoni risultati sportivi.

Pronostici delle semifinali. Non guarderei alle rose, al blasone, etc. ma agli allenatori, cioè all'esperienza. Che a quelle vette rarefatte fa la differenza. In CL hanno già vinto la coppa Ancelotti e Guardiola e la finale di Berlino potrebbe essere davvero cosa loro. In EL hanno già vinto la coppa  sia Benitez sia Emery. E ho detto tutto.

Azor

23 aprile 2015

Ristoranti e trattorie della pedata europea

Fettine di coppa: quarti di CL 2014-15 (ritorno)

E così, per la terza volta nelle ultime quattro edizioni, Real, Barça e Bayern attraccano insieme alle semifinali di CL. Nel 2012 e nel 2013, poi, in finale approdò la quarta squadra: Chelsea (vincente) nel 2012, Dortmund (perdente) nel 2013. Dunque, se la storia si ripete, quest'anno toccherebbe alla Juve – a patto che incontri una delle due spagnole, come accadde a Blues e a Schwarzgelben in quegli anni. Ci può stare? 

E chi lo sa. Juve e Bayern hanno già ri-vinto i loro campionati; una tra Barça e Real sarà campione di Spagna. La storia recente dice che tra Nostra Signora e uno qualsiasi dei tre pescioni finiti insieme a lei nell'urna dell'ultima pesca dovrebbe esserci un gap al momento incolmabile. Tecnico e tattico, certamente. Sul piano delle individualità le iberiche sono inarrivabili; su quello dell'organizzazione il Bayern è senz'altro da preferire. In più, l'ansia è un avversario che Allegri non sembra ancora riuscito a sconfiggere (durante la prima mezz'ora di ieri sera nel cortiletto del Principato era il dodicesimo uomo del Monaco), e dunque per prevedere come sarà la prossima serata dei bianconeri di coppa occorre un'immaginazione da indovino. Al ristorante da cento euro dovranno accontentarsi delle briciole o fregheranno l'aragosta a uno dei commensali?

Intanto, vediamo cosa succede domani a Nyon. Ma anche stasera. Se anche Fiorentina e Napoli confermano le loro prenotazioni, avremo tre posti su otto ai tavoloni delle semifinali, nei ristoranti di lusso e nelle trattorie della pedata d'Europa. Lusso sfrenato di sicuro: estemporanea ripresina o inversione del trend? L'impressione è che i conti non siano poi così in ordine. Certamente, mettiamo a frutto la stagionaccia delle inglesi; la coppa 'minore' rappresenta comunque e tuttora una dimensione abbordabile per le nostre, una coppa che – ogni tanto – si potrebbe pensare di vincere. Dal canto suo, la Juventus ha sicuramente i mezzi per guadagnarsi un posizionamento stabile nell'élite continentale. Forse difetta nella mentalità e ha ancora un allenatore inadeguato, di carisma imperscrutabile e bravura non indiscutibile. Ha campioni stagionati e altri con la testa già parzialmente altrove, ma possiede certamente la forza economica per rimpiazzarli e forse (addirittura) migliorare la qualità complessiva della rosa. Ha goduto, quest'anno, di parecchia fortuna. Ora, dovrà meritarsela e – quanto meno – non subire umiliazioni nelle prossime partite; quando, in sostanza, non guarderemo solo il tabellino. 


In definitiva, il ritorno dei quarti ha portato sui nostri schermi due gradevoli partite di esibizione (scontata quella di Camp Nou, divenuta rapidamente tale quella del Bayern – impressionante), una di orrida impotenza calcistica (quella monegasca), una feroce battaglia risolta solo verso la fine a Madrid. Questa era l'unica che valesse il prezzo di un biglietto, nonostante abbia offerto pochi gesti raffinati (quasi tutti sortiti dal repertorio di James Rodríguez). Complessivamente, si può dire che il Real meritasse la qualificazione; ma l'assist decisivo gliel'ha servito il referee teutonico, con un rosso non scandaloso ma certo generoso che regalava la superiorità numerica alle Merengues proprio nel momento topico della sfida. Si è creato uno spazio, un pertugio nell'area (attaccata a palla bassa) e il muro di Simeone ha finalmente ceduto. Come nella finale dell'anno scorso, sembrava potesse stare su, ma gli astri hanno un debole per Carletto da quella sera di Istanbul ...

Mans

20 aprile 2015

Arrivederci (e grazie)

In ripa Arni

Con la sconfitta subita a opera del Verona è finito il tempo di Montella in viola. L'allenatore campano è bravo. Abbiamo sempre scritto di quanto lo stimiamo e crediamo che in futuro possa vincere tanto, ma a Firenze ha chiuso il suo ciclo e stasera si è celebrato l'amaro rito del declino. La formazione schierata contro il Verona era ben oltre il limite della provocazione. Ha messo in campo gente che ha giocato si e no venti minuti in stagione lasciando in panchina quelli che hanno tirato la carretta fino a ora. Ha cambiato per la quarta volta in quattro partite la difesa togliendo anche al centrocampo quelle poche certezze che Lazzari, Aquilani e Badelj avevano già per conto loro. Ha lasciato in panchina Salah (ma ve lo vedete Allegri che lascia in panchina Tevez o Benitez che lascia in panchina Higuain se stanno bene?) mettendo in campo Diamanti e Gilardino, due ex giocatori estratti dal cilindro magico del fair play finanziario dell'illuminata dirigenza viola.

Il turn over è un'eresia nel calcio professionistico. Una brutta parola e un concetto senza senso. I professionisti hanno bisogno di giocare. Più giocano, meglio giocano. Magari si rompono, ma se si fermano, in questo calcio frenetico, è peggio. E poi diciamocelo francamente, cambiare uno o due giocatori affaticati è comprensibile. Cambiarne sempre sette rasenta la follia. Montella non ha mai usato una rotazione tanto intensa da quando è a Firenze. Non conosciamo le ragioni di questo atteggiamento, ma ne vediamo i risultati. La Fiorentina rischia di rimanere con un pugno di mosche in mano al termine di una stagione tutto sommato positiva. Ora resta l'Europa League. Forse l'unico vero obiettivo della Fiorentina sin da inizio stagione. Ma è un rischio puntare tutto su quella competizione. Ci sono squadre molto forti ancora in corsa e la possibilità di uscire anche giovedì sera è a questo punto assai alta. Vedremo. Intanto la Fiorentina ha perso Eduardo Macia (che la società aveva giurato fosse sotto contratto a tempo indeterminato e punto di riferimento imprescindibile per il futuro viola). Pradè verrà forse riconfermato. Montella ha un contratto fino al 2017. Forse resterà a Firenze anche più a lungo, ma un ciclo si è chiuso. Non sempre i cicli si riaprono con persone diverse. Firenze può ripartire con Montella e Montella può ripartire da Firenze. Con la stessa competenza tecnica, ma con tanta, tanta presunzione in meno

Cibali

19 aprile 2015

Macumba

El rincón del tertuliano

Ai piani alti della Liga (e sulla soglia delle semifinali di Champions, monopolizzate dalle tre grandi spagnole) la dimensione tecnico-tattica pare non contare più. A sei giornate dal termine, il copione non subisce significative variazioni: Barcelona, Real Madrid e Atlético Madrid vincono. Soffrono o dominano, ma quasi sempre portano a casa il risultato. Unica eccezione, il mezzo scivolone del Barça una settimana fa contro un agguerritissimo Sevilla: ammaliata dalla magia del Sánchez Pizjuán, la capolista ha visto dimezzarsi il vantaggio sull'inseguitore merengue. A questo si è ridotto il campionato: a una perenne invocazione della malasorte sul rivale attraverso ogni pratica rituale conosciuta. La macumba, la gufata, le corna, el mal de ojo, tutto vale, purché il Barça inciampi, il Madrid perda il contatto, l'Atleti venga raggiunto dalle dirette concorrenti per la terza piazza.

El Pistolero, 11 gol nella Liga BBVA
 Ieri il terreno del Camp Nou era disseminato di infide tagliole blanquinegres - il Valencia occupa la quarta posizione e ambisce a superare l'Atlético - ma questo Barça è estremamente pratico: apre e chiude il match a mo' di ventaglio, grazie al fulmineo suicidio ché e nel segno del Pistolero Suárez.
Carico a pallettoni dopo la doppietta del Parc des Princes, Luísito dopo 55 secondi dal fischio iniziale accetta l'invito Messianico a marcare il tipico gol de vestuario, in un bruciante contropiede che squarcia la difesa bondage del Valencia. Nei primi minuti la Pulga, a un gol dal traguardo delle 400 realizzazioni con i blaugrana, sembra ispiratato e buca ripetutamente per vie centrali; la difesa avversaria ansima, faticando persino ad abbatterlo. Il canovaccio catalá è ovvio quanto efficace: il compito di centrali e terzini è di traghettare il pallone all'altezza del cerchio di centrocampo, dove chi di dovere (Leo, who else?) raccoglie e inventa. La cooperativa funziona: lui è regista, mezzapunta, ala, centravanti e ala, lo es todo.

Claudio Bravo para il rigore di Dani Parejo
 Il Valencia, pur senza il fosforo di Pablo Piatti, reagisce allo scapaccione a bruciapelo e guadagna un rigore a 24 carati, che il capitano Parejo s'incarica sciaguratamente di recapitare tra le braccia di Claudio Bravo. I culé cominciano a imbarcare acqua: sulle fasce soffrono la spinta di Feghouli, Otamendi, Rodrigo, André Gomes, perdono pericolosamente il marchio di fabbrica - il possesso palla - e subiscono inermi la pressione avversaria. Il centrocampo non filtra, Xavi latita. Il palo di Paco Alcácer è l'ultimo avviso del primo tempo, dopodiché comincia un'altra partita: nella seconda frazione il Barça sterilizza la sfera, assume il controllo del match e lo chiude all'ultimo istante, con una cavalcata trionfale di Messi su un Valencia ormai senza ossigeno (e ulteriormente staccato dal terzo posto, consolidato dall'Atleti grazie al successo sul Depor). L'incontro, però, non poteva terminare prima che Messi si presentasse all'appuntamento inderogabile con il quattrocentesimo sigillo azulgrana.

Prodezze di giornata: la chilena di Antoine Griezmann
La pressione a questo punto ricadeva interamente sulle spalle del Real Madrid, alle prese con il molesto Málaga. Con il ritorno del derby europeo dietro l'angolo, Ancelotti sceglie di non rischiare Benzema. Il suo XI suole condurre le danze ma tende a sbilanciarsi; la difesa è friabile, barcolla costantemente sulle palle alte, condizionata dalle persistenti indecisioni di Casillas in uscita e da centrali più adatti a proporsi che a contenere. La macumba stavolta può contare sulla doppia sponda Barça-Atleti, fattore chiave perché gli spilloni vodoo pungano il pupazzo blanco dove realmente duole.

Fuori uno: Bale
Gli esiti del sortilegio non tardano a manifestarsi: dopo due minuti, l'infortunio di Bale. Il Madrid spinge a sinistra con un caotico Marcelo, ma il Málaga è squadra giovane, rapida e pratica; il centravanti marocchino Amrabat a più riprese mette in imbarazzo Pepe e Ramos, la corsa di Boka impone ai Blancos di sbilanciarsi a destra, in sostegno ad Arbeloa. Il gol di Ramos - in sospetto fuorigioco - giunge nel momento più opportuno; qualche minuto ancora e la questione si sarebbe complicata. Dopo il vantaggio il Madrid si scuote, Kameni compie un paio di miracoli, ma la partita è sempre aperta e vibrante: Sergi Darder nel primo tempo fagocita il pareggio, un rigore di movimento consegnato al parcheggio del Bernabeu. I Boquerones si chiudono e ripartono, vogliono portarsi via un pezzo di stadio e cominciano a marchiare le articolazioni avversarie: a turno Angeleri, Sergio Sánchez e Castillejo (spesso fuori giri), più tardi Tissone, fino alla nefasta entrata dell'impenitente Recio, che scalpella il ginocchio di Modric. Nel centrocampo merengue, improvvisamente si spegne la luce.

Fuori due: Luka Modric K.O.
 Il croato è l'ago della bilancia. Si avvera, dunque, il peggior incubo di Carletto: perdere ora Modric con lo spettro del Cholo dietro l'angolo, e con alternative che non lo convincono appieno. Il mister non si fida del pigro Isco, la cui qualità tecnica mal si coniuga con l'infinita quantità di palloni persi, né della recente scarsa affidabilità di un Kroos sempre meno germanico, sempre più latinamente impreciso. Senza Modric il Madrid vacilla; il Málaga annusa il sangue della preda ma perde l'attimo. Nel momento migliore arriva il rigore (fallito da Cristiano Ronaldo), poi un gran gol di James Rodríguez, eccelso ricamatore, e la tardiva stoccata di Juanmi; Chicharito negli ultimi minuti si scrolla di dosso la depressione di un lungo inverno in panchina e assiste il tap-in di CR7. Il trionfo costa la salute al Madrid, incerottato allo scontro decisivo di Champions, senza Marcelo, Bale e Modric. Peligro...

Duca

15 aprile 2015

I larghi spazi del Manzanarre e l'ombra di Vidal

Fettine di coppa: quarti di CL 2014-15 (andata - primo martedì)

Non è buona cosa, guardare contemporaneamente due partite, seguendone fasi stabilite quasi a capocchia dai telecronisti ("angolo per la Juve, linea a Torino", "punizione per il Real, linea a Madrid", "attenzione, Torino, Torino!", e a Torino la Juve sta per battere un calcio di rigore ma vai a sapere perché, ti toccherà aspettare le cento ripetizioni dell'azione e intanto a Madrid chissà cosa succede). Del resto non era semplice la scelta. Di derbi madrileni abbiamo quasi la nausea, ultimamente, anche se è difficile che ci si annoi. La Juve, dal canto suo, si giocava (stavolta alla pari, non come due anni fa) una possibile semifinale di Champions, come si poteva ignorare l'evento? Sicché, tocca ammettere che delle due partite abbiamo capito abbastanza poco. E ne restituiamo solo qualche impressione. 

"Mario, è inutile che ti produci da solo ferite con armi da taglio.
Non ci casco!"
La prima. Sarà così strano che un arbitro serbo (Milorad Mažić) abbia trascorso i primi dieci minuti della semifinale spagnola fischiando falli su falli a un centravanti croato (Mario Mandžukić)? Ma sì, sarà una coincidenza. Con le regole del basket, Mario sarebbe rientrato negli spogliatoi in un amen, invece è rimasto in campo e il suo volto coperto di sangue (foto) è l'immagine della partita destinata a fare il giro del mondo e a restare negli archivi degli archivi. 

La seconda. C'è da dire che mai come ieri sera, nel primo tempo, gli spazi verdi del Manzanarre sono parsi così ampi e praticabili. I Blancos si sono avventati, rabbiosamente. In velocità. Incontenibili. Un cannoneggiamento insistito. Ma il muro dell'Atlético è difficilmente abbattibile, e le risorse agonistiche di questa squadra sono pressoché infinite. Alla fine, i palloni iniziano a spiovere nell'area del Real, che poteva uscire ancora una volta con le ossa semifracassate dalla sfida. Non osiamo immaginare l'atmosfera del Bernabéu, tra otto giorni.

Il muro
La terza. Lì, al Manzanarre, non segna mai nessuno. Non ci sono riusciti, quest'anno, la Juve (e passi), l'Olympiakos (e passi), il Malmoe (e passi), il Bayer (e passi); l'anno scorso, non ce la fecero il Chelsea (in semifinale), e neppure il Barça (nei quarti). L'ultima squadra a riuscire nell'impresa è stata dunque il Milan: era l'11 marzo 2014, e Kakà, alla mezz'ora di gioco, fissava il momentaneo uno a uno. Poi finì in goleada, come da pronostico.

La quarta. Piccola Juve, non all'altezza delle aspettative. Aspettative forse ingiustificate. Purtroppo, non sembra ci sia stato il salto di qualità. Quello che dovrebbe portare i bianconeri all'altezza dei top-club continentali. Sarà stato per la scarsa vena di Tevez o per la lentezza di Pirlo, ma il loro gioco non è mai fluito veloce, e i francesi hanno potuto tirare in porta più del preventivabile, sprecando anche situazioni non impossibili. Il rigore non c'era, ma non è scandaloso che sia stato assegnato. 

L'istantanea sembra quella di recenti spot promozionali di Sky
La quinta. Vidal, il cileno tatuato, non è nemmeno l'ombra dell'ombra di quel che era l'anno scorso o due anni fa. Alterna cose buone a cose indecenti, ma soprattutto quelle buone non sono mai decisive. Ho appena fatto in tempo a pensare che la sua parabola ricorda da vicino quella di Kevin-Prince Boateng, ed ecco che Arturo va sul dischetto e stipula una polizza assicurativa per tutta la squadra in vista del viaggio nel Principato. Ma - suvvia - non è stata quella gran prodezza. Come che sia, il risultato mette la Juve in una botte (quasi) di ferro. I monegaschi, a casa loro, faticano a vincere partite. Sono impostati per giocare in contropiede, non per il possesso e per l'assedio. Vedremo.

La sesta, e ultima. Piccola, davvero piccola Juve, ma proprio perciò (e perché la fortuna non è mai un aspetto secondario in queste competizioni, in qualunque forma si manifesti) potrebbe sorprendere i giganti del continente. Non sarebbe la prima volta. Contro, gioca soprattutto il blasone, il prestigio che altre out-sider in passato non potevano vantare. Difficile venga presa sottogamba. Ma chissà.

Mans

8 aprile 2015

La signoria di nostra signora

Cartoline di stagione: semifinali di Coppa Italia 2014-15

Raramente la terra della pedata italica è stata soggetta a una signoria così incontrastata e priva di alternative. La Juventus esercita il dominio con 'gentilezza' (cioè senza infliggere umiliazioni agli avversari) in campionato, vincendo spesso le partite di scarto minimo. Ma quando subisce uno sgarbo dai sudditi usa la frusta; e quella che abbiamo visto ieri sera, a Firenze, è parsa più una spedizione punitiva che non una semplice gara di ritorno di Coppa Italia. Tre a zero, e "Artemio Franchi" costretto a piegarsi, ammutolito, di fronte alla legge dei dominatori.


Naturalmente è andata subito in onda (da parte di opinionisti-giornalisti-tifosi) la celebrazione di Massimiliano Allegri. Si aggiornano confronti (documentati da tabelle, percorsi, punti, gol)  tra lui e Conte. Vogliamo mettere l'acume tattico, la saggezza, l'esperienza (?), la furbizia (certamente) del toscano? Mettiamole pure. Ma sono tutte doti fiorite all'improvviso, poiché a Milano nessuno sospettava le possedesse in cotale misura. Anzi, lo si riteneva connotato da una certa inadeguatezza. Soprattutto tattica - si ricorderà l'impiego da laterale sinistro di Pirlo nella prima stagione, prodromico alla partenza del bresciano; si ricorderà anche il 'basico' 4-3-3 con cui (ma solo grazie alla brillantezza di Balotelli) portò i rossoneri al terzo posto due anni fa (salvo essere poi esonerato in corso d'opera l'anno successivo, quando Mario perse la voglia di giocare a pallone). Quindi non ci allineiamo. La Juventus è fortissima ed esercita una stabile signoria sul calcio nostrano perché ha un impianto molto solido, un gruppo collaudato ed esperto. Un gruppo che ha, ormai, la cosiddetta 'mentalità vincente'. Non mancano i campioni, ed è gente che potrebbe ormai giocare senza allenatore, gestirsi e allenarsi in autonomia. Grosso modo, rivediamo quel che accadde al Milan quando a Sacchi subentrò Capello - benché la forza complessiva (e l'impatto storico) delle due squadre sia probabilmente incomparabile. Come che sia, la Juve si avvia a un double domestico e a una possibile semifinale europea; dunque, a concludere la stagione con risultati ampiamente migliori di quelli preventivati. Il giudizio storico su questo ciclo potremo ovviamente formularlo solo quando si sarà concluso - quando, cioè, la 'vecchia guardia' avrà appeso le scarpette al chiodo o fatto le valigie per un fine carriera in qualche Eldorado asiatico o americano.

Fondare signorie calcistiche non è semplice, ma ancora più difficile è minaccarle o abbatterle. In questo senso, le strategie di Napoli e Roma (quanto a Roma, e alla curva romanista, omettiamo di commentare gli indegni striscioni esposti sabato durante il derby del sud) si sono rivelate inefficaci. Dal canto suo, Milano è praticamente scomparsa dalla mappa. E quali siano le strategie dei due club ambrosiani è difficile dire: sicuramente confuse quelle nerazzurre, totalmente insondabili quelle rossonere (lo stadio? la cessione della proprietà?); ma sarebbero discorsi lunghi. Intanto, registriamo un dato forse senza precedenti: i due squadroni metropolitani sono, in classifica, contemporaneamente alle spalle sia delle due torinesi sia delle due romane, e sono complessivamente messe peggio delle due genovesi. 

Sì, stiamo parlando dei due club di Milano, cioè della città che dieci volte su sessanta - cioè in media una volta ogni sei anni - ha visto una propria squadra sul tetto d'Europa. Minuscolo punto sulla mappa del calcio italico, l'anno prossimo Milano (probabilmente, se non ancora sicuramente) non sarà una delle cento e passa città partecipanti alla gran fiera del calcio europeo. Nell'anno dell'Expo, un 'buco' (d'immagine e non solo) surreale.

Mans

6 aprile 2015

Repoker (La cinquina)

El rincón del tertuliano

Amsterdam Arena, 31 marzo 2015, Olanda-Spagna 2-0. 
 Memphis Depay, imprendibile
Il break delle nazionali si è chiuso con l'ennesimo schiaffo oranje: temendo che il ricordo del tonfo di Brasile 2014 e dell'umiliante 5-1 di Van Gaal potesse svanire nelle menti iberiche, in amichevole "Magician" Hiddink incanta l'Amsterdam Arena con un recital di football totale e in 15 minuti mortifica l'XI di Vicente Del Bosque. Senza le stelle Robben e Van Persie, la punta del PSV Memphis Depay veste i panni del crack e squassa la retroguardia spagnola, impoverita dalle prestazioni decisamente insufficienti di Piqué e Albiol; al momento, pur considerando il volenteroso forcing della Roja nella seconda frazione, la differenza tra le due rappresentative è siderale.

La cinquina dell' insaziabile CR7: 36 gol in 26 partite!
Archiviata la scoppola, la Liga inizia l'ultimo segmento di dieci gare. La giornata pasquale lascia invariati i quattro punti di distanza tra Barça e Madrid. Al Bernabéu per circa venti minuti si ammira un Granada solido e pungente, con Fran Rico e El-Arabi pericolosi in un paio di occasioni, finché Bale stappa la difesa nazarí con il primo gol blanco. Da quel momento comincia il crollo biancorosso e il match si trasforma in una lenta agonia. Sulla panchina merengue, Ancelotti si rilassa e contempla la sua squadra ritrovata, finalmente rapida e letale dopo tre mesi di anemia, mentre passeggia su ciò che resta del Granada. Le miopi accuse piovute sul reggiolese da carta stampata e spalti tornano al mittente, incartate con nove gol e con la consapevolezza che il Madrid a ranghi completi è uno schiacciasassi. I punti persi per strada derivano quasi esclusivamente dalle lunghe assenze di James Rodríguez e Modric: indispensabili e insostituibili, nonostante gli sforzi dei vari Isco, Sami Khedira, Lucas Silva e Illaramendi. Cristiano Ronaldo, dopo aver rifiatato per qualche giorno, in 8 minuti mette a segno un hat trick, che poi si converte nel primo repoker della sua carriera, zittisce gli schizofrenici mugugni della peggiore tifoseria del pianeta (nota per essere in grado di acclamare i propri beniamini e lapidarli pochi istanti dopo) e supera l'eterno rivale Messi nella classifica goleadora.

Neymar Jr, nervoso e inconcludente contro il Celta
Poche ore dopo il Barça fatica tremendamente contro il Celta de Vigo. Il pubblico del Balaídos spinge i suoi, autori di un primo tempo strepitoso in cui l' XI culé soffre le incursioni di Nolito e la maggiore dinamicità dei galegos. Nel secondo tempo, quando la spia rossa si accende nel serbatoio céltico, i blaugrana riprendono il possesso, pur senza portare grandi pericoli alla porta di Álvarez almeno sino all'incursione dell'ariete Mathieu, al secondo centro su calcio piazzato dopo il gol del Clásico. Un Barça grigio e nervoso – con un Messi in tono minore e con le continue simulazioni di Neymar e Suárez, che ciclicamente indossano la loro maschera più irritante e polemica – raggiunge l'obiettivo: il margine di quattro punti è intatto, in vista del prossimo turno infrasettimanale e dei prossimi impegni di Champions League e Copa del Rey. 

Luciano Darío Vietto,
pericolo costante al Mestalla
Nella parte alta della classifica, i due restanti posti Champions sono contesi da tre squadre: Atlético Madrid, Sevilla e Valencia. Simili i successi di Emery e Simeone: in entrambi i casi, la pratica è archiviata in pochi minuti, Athletic Bilbao e Córdoba oppongono poca resistenza. Al Mestalla invece l'equipo ché traballa contro il Vila-real e non va oltre lo 0-0, in un match teso e bloccato in cui è il sottomarino giallo a esibire più coraggio e idee; Musacchio e Bailly frenano ogni iniziativa del Valencia, Vietto e Pina a più riprese pungono la retroguardia blanquinegre, il punto scontenta Marcelino.

Nel frattempo, il sinistro di Raúl González Blanco iniziava una nuova avventura nella North American Soccer League: al Lockhart Stadium l'eterno 7 blanco debuttava nel New York Cosmos con una vittoria sui Fort Lauderdale Strikers, club della Florida che conta tra i suoi azionisti un certo Ronaldo Luís Nazário de Lima. L'ultima avventura di Raúl, questa, in uno scenario decisamente sottotono qual è la NASL, categoria inferiore alla Major League; forse, l'ultima spiaggia per il ritorno di un altro trentasettenne d'oro, il mito culé Carles Puyol.

Duca