Parecchi anni fa, ai tempi del liceo (classico: Carducci, Milano), la professoressa di filosofia - che non capiva proprio nulla di calcio, ma appariva oltremodo incuriosita dalla mia devozione per i colori nerazzurri - mi domandò, per l'appunto filosoficamente, una definizione incontrovertibile del bello (calcistico, s'intende). Allora risposi - e risponderei tuttora - che il bello nel calcio consiste nel cacciare il pallone in fondo alla rete nel tempo più veloce possibile, vale a dire col minor numero di passaggi possibile - avevo in mente, com'è ovvio, i lanci di quaranta metri dell'inimitabile Luisito. La loica rimase molto stupita e mi obiettò che quel mio principio del minor numero di passaggi le pareva affatto contraddittorio al concetto stesso di un gioco di squadra e perciò collettivo. Credo di averle infine replicato che per il calcio vale il medesimo postulato della geometria euclidea: che tra due punti il collegamento più breve resta la linea retta (leggi Luisito-Jair-Mazzola), punto e basta.
Il dialoghetto filosofico mi viene in mente ogni volta che leggo magnificato l'insoffribile ticchetocchettare del Barcellona, coi suoi centomila passaggi, prima che il solito Messi provveda a chiudere la questione. Provate a immaginarvelo il Barcellona, senza quella specie di piccolo Hermes dalle caviglie alate, geniale e spiritato ...
Ci ho ripensato anche ieri sera, quando sentivo tante chiacchiere in tivvù sulla Beneamata e sulla sua "mancanza di gioco" - ritornello vecchio come il cucco (lo ripetevano anche l'anno del triplete) - a fronte delle armoniose geometrie laziali. Ma suvvia, dopo un primo tempo di giudiziosa e sparagnina attesa, fatta apposta per logorare gli avversari, cinque o sei limpide azioni in contra pedem si sono pur viste, nei secondi quarantacinque minuti, e che i tre punti siano infine andati alla Lazio fa parte del mistero buffo che Musa Eupalla governa con impareggiabile inventiva.
Ararat
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