Dobbiamo ringraziare Arthur Antunes Coimbra per aver
concesso nuovamente i warholiani 15 minuti di notorietà mediatica a una delle
più belle partite della storia delle coppe del mondo, ergo della storia del football:
Italia-Brasile 3:2 del 5 luglio 1982. Con le sue dichiarazioni alla Soccerex
Global Convention 2012 [vedi], Zico ha consentito di spezzare per qualche ora
l’ininterrotto vociare della pedata nazionale su torti arbitrali e sudditanze
psicologiche, costringendo i cronisti ad alzare il cellulare per interpellare
qualche vecchio reduce di quel memorabile match. Prendiamo allora – come suol
dirsi – la palla al balzo, e gettiamo in rete qualche considerazione di
contesto e qualche coriandolo di memorie.
Arthur Antunes Coimbra in una partita del Mundial 1982 |
Cosa ha detto esattamente Arthur Coimbra? Andando alle fonti
[vedi], individuiamo due ordini di discorso. Da un lato, un giudizio storico
negativo: “If we had won that game, football would have been different.
Instead, we started to create football based on getting the result at whatever
cost, football based on breaking up the opposition's move, and based on fouling
the opposition. That defeat for Brazil was not beneficial for world football. If
we had scored five goals that day, Italy would have scored six as they always
found a way of capitalising on our mistakes”. Dall’altro, una constatazione
sullo stato attuale del calcio brasiliano (dal quale, si noti, Zico è “in
esilio asiatico” ormai dal 1991): “Brazil is a fertile land for players but we
have to change the mentality in the junior divisions of the clubs. I'm sure
that if I went for a trial at a football club today, I would be rejected for
being thin and small. You don't see Romario-type forwards in the youth
divisions, (the centre forward) is always a big guy. That's where the deterioration
of Brazilian football begins. Clubs are worried about winning titles in the
junior categories, rather than developing players”.
Se si legge con attenzione, Zico traccia un nesso tra la
sconfitta del Brasile 1982 e la successiva tendenza culturale del suo futebol a privilegiare il risultato
attraverso giocatori fisici rispetto alla formazione di calciatori di qualità
tecnica. È un discorso di carattere generale ma che ha come destinatario
principale il movimento calcistico brasiliano, in un frangente difficile,
all’indomani dell’inopinato esonero del CT della nazionale Mano Menezes che
aveva faticosamente intrapreso un percorso di rinnovamento qualitativo della Seleção
affidandosi ad alcuni giovani, talentuosi ma non ancora maturi, giocatori. Nei
giorni in cui Zico ha rilasciato le sue dichiarazioni la scelta del successore
di Menezes era ancora aperta a varie soluzioni, la più fantomatica delle quali era la candidatura di Pep
Guardiola, che avrebbe dato vita a una delle sperimentazioni più suggestive
della storia del calcio: il calcio totale fondato sulla rete di passaggi e
sulla transizione immediata affidato a una generazione di giovani di talento.
In realtà, la Federazione aveva deciso
di virare su un progetto tattico molto pragmatico: sostanza e risultati, con la
fantasia come optional.
Luiz Felipe Scolari e Carlos Alberto Parreira Una loro rinnovata vittoria mondiale è una missione possibile? |
In vista di un mondiale che il Brasile non può
permettersi di non vincere, la scelta appare comprensibilissima anche se può non piacere a trisvalide di
talento come Zico, che provano a dare alle tendenze in atto una riposta fondata
sull’interpretazione della storia. La coppia Luiz Felipe Scolari e Carlos
Alberto Parreira, i CT che hanno dato al Brasile le ultime due coppe del mondo,
sembra fornire quell’esperienza e quel pragmatismo che altre soluzioni
ventilate – Muricy Ramalho e Tite, allenatori di recenti vittorie grazie a
un’idea di gioco propositiva e offensiva – potevano alla fine non garantire,
anche per un deficit di esperienza che invece dovrebbe essere assicurato dai
due ultrasessantenni prescelti [vedi la VQA].
Gli osservatori superficiali sono ancora convinti che
l’identità del Brasile futbolistico sia quella del “jogo bonito”, del calcio tutto
fantasia, talento e individualità: di giocatori come Garrincha, Pelé, Zico e
Ronaldinho, per intenderci. È una bella favola oleografica che piace ai nesci.
La storia del calcio brasiliano dell’ultimo mezzo secolo è invece diversa ed
ancipite, come ha ben messo in evidenza Tim Vickery [in “The
Blizzard”, 6 (2012)]. Da un lato persiste la tradizione del futbol fantasia
– risalente alla cultura del “malandro” (l’artista mulatto del raggiro) indagata
dal sociologo Gilberto Freyre negli anni trenta [come ricorda Alex Bellos, Futebol. Lo stile di vita
brasiliano, pp. 43-44] – che celebra l’epopea del Brasile di Pelé e
delle sue tre coppe del mondo in sole quattro edizioni, ha toccato il proprio
zenith nel 1970 (con uno degli XI più memorabili della storia) e riconosce
nella nazionale del 1982 l’ultimo degno epigono. Dall’altro è sempre più
diffusa e legittimata una linea che si usa far risalire al colpo di stato
militare del 1964 (di cui, nell’anno dei prossimi mondiali sarà inevitabile
ricordare la ricorrenza) e alla politica “tecnocratica” che il nuovo regime
cercò di imporre e attuare in tutti settori sociali, compreso il calcio: è infatti
a un’idea di calcio organizzato, affidato a un sistema di gioco tatticamente
accorto, cui si rifecero le nazionali del 1974 e del 1978, e a cui si devono le
vittorie del 1994 e del 2002; è lo stile incarnato da Dunga dapprima come
leader in campo e poi come CT della nazionale; è una linea culturale che
ricorre all’organizzazione prima che alla fantasia, senza ovviamente rinunciare
alla qualità, se ricordiamo come nell’XI del 2002 militassero campioni e
talenti riconosciuti come Cafù, Roberto Carlos, Rivaldo, Ronaldinho e Ronaldo.
E senza dimenticare – peraltro – che anche per questa via sono arrivate le
vittorie [su questi punti vedi anche Jonathan Wilson, “The Guardian”, 14 August 2012].
Azor