E in effetti anche a me pare che i nostri abbiano interpretato un grande incontro. Dirò di più: non ricordo cinque matches tra nazionali giocati negli ultimi dieci anni più belli di quello che abbiamo visto domenica pomeriggio (un agone straordinario di colpi su colpi, occasioni su occasioni, dal primo all'ultimo minuto, senza risparmio e con palese volontà di vincere al fine). Per certi aspetti è stata, a un tempo, una partita arcaica quanto proiettata nel futuro. Arcaica perché entrambe le squadre l'hanno interpretata secondo identità e tradizione: in certe chiusure tempestive e perentorie di Bonucci o Chiellini ho visto la sinopia dei bulloni di Burgnich o di Scirea, nella battaglia di centrocampo (che ha avuto attimi di grandi gesta) Marchisio o Giaccherini mi hanno evocato più volte il ricordo di Tardelli o di Oriali, e lo stesso tiki-taka degli spagnoli è un atteggiamento che viene da molto più lontano di quanto non credano i nesci (non se lo è inventato il Barca né tantomeno il Pep, ma è vocazione antica della pedata iberica: "Toque y paciencia. Paciencia y toque. Acompanar al balón hasta la portería contraria, por si se siente solo. Así somos" scrive Juanma Trueba, che aggiunge "Para Espana fabricar un gol es come hacer fuego con dos ramas secas. Lleva su tiempo").
Proiettata nel futuro perché le disposizioni tattiche con cui i due allenatori hanno messo i giocatori in campo disegnano scenari nuovi e per certi rispetti inediti: a parte i portieri, hanno cominciato la partita solo quattro difensori di ruolo e una punta, gli altri essendo per attitudine e vocazione dei centrocampisti; dunque più di due pedatori su tre erano delle "sartine" (a dispetto, è vero, di scalpi e tatuaggi) per dirla col Beck: più prosaicamente dei facitori di gioco (sì certo, anche Nocerino ...). In effetti sta avvenendo qualcosa di importante e strutturale nei laboratori di avanguardia calcistica in queste due ultime annate calcistiche: il ricorso crescente, in tutti i ruoli, a giocatori capaci di creare gioco. La potremmo chiamare un'esondazione del centrocampo.
Il riferimento scontato è al Barcellona di Guardiola, che ha tagliato progressivamente gli attaccanti (da Ibra ad Etoo) e i difensori per far posto a profili come quelli di Mascherano, Fabregas o Sanchez, e che ha imposto al portiere di usare i piedi e di avviare il gioco, e alle azioni d'attacco di rinunciare ai colpi di testa. Una progressione che si è accentuata in questa stagione complice anche l'infortunio di Villa. Culturalmente le radici sono quelle ben note del calcio totale della prima Olanda di Michels, dove l'unico difensore era Rijsbergen e nemmeno Rep era una punta pura, e del concetto di "giocatore universale" caro ad Arrigo Sacchi. Alcuni allenatori colti hanno cominciato a sperimentarne le applicazioni: Conte, arrivato alla Juve con lo stigma di ayatollah del 4-2-4, si è rivelato invece uno dei più duttili maestri di gioco, capace di investire sulla qualità immensa di play-maker di Pirlo e di trasformare in centrocampista esterno un attaccante come Giaccherini (che deve a questo la sua convocazione e il debutto agli Europei, dritto dritto contro i campioni del mondo) come anche, sulla destra, un full back quale Lichtsteiner; Prandelli ha puntato tutto sui piedi buoni per ricostruire la Nazionale terremotata daI troppi ronzini di Lippi in Sud Africa, inventandosi il rombo di qualità e rotazione ma anche insistendo su Cassano e rinunciando al centravanti; fino alla arguta decisione di contrastare la Spagna sul suo stesso piano, esondano il centrocampo e giocandosi la carta di De Rossi centro mediano.
Carlos Alberto Parreira (VQA: 1a fascia): profeta del 4-6-0 |
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